Serena conduce operaclassica eco italiano.

LA FAVORITA DI GAETANO DONIZETTI
TORNA AL TEATRO REGIO DI PARMA DOPO 40 ANNI

L’opera del compositore bergamasco in un nuovo allestimento
in coproduzione con il Teatro Municipale di Piacenza
con la regia di Andrea Cigni e la direzione di Matteo Beltrami,
sul podio dell’Orchestra Filarmonica Italiana e del Coro del Teatro Municipale di Piacenza, preparato da Corrado Casati. Nel cast Simone Piazzola,
Anna Maria Chiuri, Celso Albelo, Simon Lim,
Andrea Galli, Renata Campanella.

Teatro Regio di Parma
venerdì 25 febbraio 2022, ore 20.00
domenica 27 febbraio 2022, ore 15.30

La favorita, grand opéra in quattro atti di Gaetano Donizetti su libretto di Alphonse Royer, Gustave Vaëz e Eugene Scribe, debutta al Teatro Regio di Parma, ove torna in scena dopo 40 anni, venerdì 25 febbraio, ore 20.00 e domenica 27 febbraio 2022, ore 15.30 nel nuovo allestimento realizzato in coproduzione con Teatro Municipale di Piacenza, con la regia di Andrea Cigni, le scene di Dario Gessati, i costumi di Tommaso Lagattolla, le luci di Fiammetta Baldiserri.
Matteo Beltrami, sul podio dell’Orchestra Filarmonica Italiana e del Coro del Teatro Municipale di Piacenza, preparato da Corrado Casati, dirige il cast composto da Simone Piazzola (Alfonso XI), Anna Maria Chiuri (Leonora di Guzman), Celso Albelo (Fernando), Simon Lim (Baldassarre), Andrea Galli (Don Gasparo, per la prima volta al Teatro Regio), Renata Campanella (Ines, per la prima volta al Teatro Regio).

Concepita per il debutto a Parigi, dove Donizetti aveva già riscosso grande successo con Marin Faliero, Roberto Devereux, L’elisir d’amore e Lucia di Lammermoor, e dove il compositore si era trasferito in seguito a un periodo difficile a livello professionale e familiare, culminato con la perdita della moglie e della terza figlia, l’opera andò in scena alla Salle Le Pelletier dell’Opéra il 2 dicembre 1840 riscuotendo un’accoglienza entusiasta da parte del pubblico. Come spiega lo storico Giuseppe Martini, Donizetti “compie con La favorite un attento lavoro di mediazione fra gusto francese e italiano […]. Priva di musiche di cerimoniale e di scene altisonanti, è un’opera certamente di profilo assai snello per le abitudini dell’Opéra. Ma il risultato del lavoro di Donizetti resta una delle sue partiture più eleganti, e non solo nel celebrato quarto atto, per cui si spiega l’affermazione di Arturo Toscanini quando diceva che «La favorita è tutta bella!»”.

Al momento della traduzione in italiano, affidata a Francesco Jannetti, l’opera conobbe una vicenda tormentata a causa della censura. La vicenda storica di Léonor di Guzman, amante del sovrano Alphonse XI che per lei ripudiò la moglie, e l’inserimento del personaggio di Fernand, novizio pronto a tradire la sua vocazione per amore, valse all’opera non pochi rimaneggiamenti nel titolo, nella traduzione e nell’ambientazione: per la prima italiana a Padova nel 1842 fu rappresentata con il titolo Leonora di Guzman, mentre a Roma andò in scena con il titolo Dalia e con l’ambientazione ottomana nel XIV secolo, mentre la Scala commissionò una trasposizione ambientata in Siria nel 1113, intitolata Elda. “Tutti questi cambiamenti – continua Giuseppe Martini – hanno creato enorme confusione nei testi in italiano, con l’adozione di versioni diverse del finale e con spostamenti erronei di battute da un personaggio a un altro. Ma la traduzione di Jannetti è ancora oggi largamente in uso e dunque, anche per via del radicamento dei pezzi più celebri nella memoria collettiva, correggibile ma difficilmente espungibile”.

“Se dal punto di vista cronologico La favorita rientra ancora nel periodo operistico che chiamiamo convenzionalmente belcantista, in realtà è ai limiti di quel mondo – spiega Matteo Beltrami. “Tanto per cominciare, la tessitura vocale pretende molto dagli interpreti, soprattutto nella parte di Leonora […]. In secondo luogo, l’orchestrazione utilizzata qui da Donizetti è molto corposa, e si avverte ancora di più con gli strumenti moderni: gli accenti risultano sempre molto drammatici e sono richiesti volume e capacità interpretativa decisamente matura. Ecco, La favorita è veramente un’opera per interpreti maturi. Non è affatto semplice da restituire. Queste caratteristiche rendono difficoltoso dal punto di vista direttoriale trovare un filo interpretativo che conferisca coesione all’opera, tanto più oggi, quando la capacità di concentrazione e la percezione del tempo così condizionata dalla tecnologia sono molto diverse da quella degli anni Quaranta del XIX secolo. Nella Favorita ci sono vere e proprie oasi in cui il tempo sospeso risulta molto difficile da adattare alla nostra percezione dell’azione […] Inoltre, La favorita è un grand opéra di dimensioni ridotte rispetto allo standard di quel genere in quegli anni, e la versione italiana è ancora più snellita. In questo allestimento si noterà ancora di più questo ridimensionamento che la porta ad assumere le fattezze per noi più confidenziali del modello operistico italiano, dal momento che per motivi legati all’emergenza sanitaria si è deciso di non mettere in scena i balletti, come del resto spesso si faceva con i grand opéra tradotti in italiano. In questo modo in compenso viene accentuata la natura di dramma intimo di quest’opera, che è il dramma di Leonora dilaniata fra un nuovo amore e la sua difficile posizione sociale”.

“La storia di La favorita è una storia di ruoli e di personaggi, delle differenze sociali tra questi e delle dinamiche affettive e di potere che li regolano – scrive Andrea Cigni. “I ruoli e i personaggi sono il centro drammaturgico più importante. Poco importa in realtà il contesto storico o geografico della vicenda. Sono però importanti le relazioni tra i protagonisti e dunque uno spazio fortemente simbolico e significativo ove tutto si svolge e prende vita. La sincerità, la chiarezza dei personaggi, il loro essere “veri”, è nascosto dal ruolo e dunque dal costume che li protegge e che impedisce di essere loro stessi. Il coro ha una funzione essenziale di commento all’azione, come se fosse spettatore distaccato ma presente di qualcosa che si svolge davanti a lui, come se assistesse a un teatro (nel senso filologico del termine, ovvero ‘azione del guardare’) rappresentato da Fernando, Alfonso, Leonora. E dunque dobbiamo andare a scoprire la verità nascosta dentro ai costumi dei personaggi stessi, che impongono un ruolo nella società e che rappresentano una specie di “corazza” ai sentimenti, ma anche una protezione rispetto alla collocazione sociale che hanno. Siamo partiti dunque dall’idea del Teatro Anatomico, luogo dove si “esaminano” profondamente (fisicamente) gli individui e che qui vorremmo riproporre come “analisi” e disamina dei sentimenti, delle viscere affettive dei personaggi, del loro essere veri sotto una pelle (rappresentata dal costume) che solo quando viene tolta li lascia sinceramente esprimere ciò che sentono, provano, vivono mostrandoci i loro sentimenti, la loro sofferenza, la loro angoscia, il loro amore, la loro verità. Poco importa a dire il vero se è Spagna e se è il 1340. Ciò che conta è la dinamica drammatica raccontata allo spettatore (e dunque anche al coro che ha questa funzione in scena). […] Ci interessa così analizzare minuziosamente, come avviene per un corpo nel teatro anatomico, la storia tra i personaggi, le dinamiche dei loro comportamenti, la sintesi dei loro sentimenti. È assolutamente affascinante capire come, per mantenere una credibilità e un ruolo sociale, il costume intervenga sulle persone e che valore semantico questo ricopra nella drammaturgia e come lo spazio, che non è orpello o di contorno, diventi in realtà spazio vivo e vitale dell’agire analitico di chi assiste alle vicende rappresentate”.

“Il dramma della Favorita non è infatti solo l’amore soffocato e poi redento di Leonora” conclude Giuseppe Martini. “Certamente, quello è in primo piano, innerva un percorso psicologico non dissimile da quello che toccherà a Violetta, è il motore della vicenda. Ma il dramma profondo della Favorita è semmai l’esclusione di cui è vittima Fernando. Fernando è il paria, è la pedina fuori posto. La sua è la storia di un’iniziazione alla cruda realtà del mondo e degli uomini, destinata a creare un disordine per cui tutti saranno destinati a pagare pegno, ma alcuni un po’ meno di altri. Non è un caso, e lo si doveva capire subito: la marcia nuziale di Leonora e Ferrando assomiglia più una marcia funebre”.

PRIMA CHE SI ALZI IL SIPARIO

Il compositore, lo stile, la genesi dell’opera sono alcuni dei temi approfonditi da Giuseppe Martini in Prima che si alzi il sipario, sabato 19 febbraio 2022, ore 17.00, al Ridotto del Teatro Regio di Parma, con l’esecuzione delle arie più celebri a cura dei giovani cantanti del Conservatorio di Musica “Arrigo Boito” di Parma Zhuo Li Tai, Sun Quian Hui, Yan Shi, accompagnati al pianoforte da Giuliana Panza, coordinamento musicale di Donatella Saccardi. Ingresso libero.

PARTNER E SPONSOR

La Stagione del Teatro Regio di Parma è realizzata grazie al contributo di Comune di Parma, Parma Capitale Italiana della Cultura 2021, Ministero della Cultura, Reggio Parma Festival, Regione Emilia-Romagna. Major partner Fondazione Cariparma. Main partners Chiesi, Crédit Agricole. Main sponsor Iren, Barilla. Sponsor Unione Parmense degli Industriali, Dallara, Opem. Sostenitori GHC Garofalo Health Care, Poliambulatori Dalla Rosa Prati, Glove ICT, CePIM, Oinoe, La Giovane, Agugiaro&Figna, Sicim, Mutti, Parmalat, Colser, Parmacotto, Grasselli. Legal counselling Villa&Partners. Con il supporto di “Parma, io ci sto!”. Advisor AGFM. Hospitality Partner Novotel. Con il contributo di Ascom e Ascom Confcommercio Parma Fondazione, Camera di Commercio di Parma Fondazione Monte Parma. La Stagione Concertistica è realizzati da Società dei Concerti di Parma, con il sostegno di Chiesi, in collaborazione con Casa della Musica. ParmaDanza è realizzata in collaborazione con Arci Caos. Il Concorso Voci Verdiane è realizzato in collaborazione con Comune di Busseto, Verdi l’Italiano. Radio Ufficiale Radio Monte Carlo. Sostenitori tecnici Azzali editori, De Simoni, Milosped, MacroCoop, IgpDecaux, Cavalca, Graphital. Il Teatro Regio di Parma aderisce a Fedora, Opera Europa, Operavision, Emilia taste, nature, culture.

BIGLIETTERIA DEL TEATRO REGIO DI PARMA

Biglietti da €10,00 a €100,00. Riduzioni del 50% per gli under 30.

Strada Giuseppe Garibaldi, 16/A 43121 Parma Tel. +39 0521 203999 biglietteria@teatroregioparma.it
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PROMOZIONI E AGEVOLAZIONI

UNDER 30 I giovani fino a 30 anni hanno diritto a una riduzione del 50% sul prezzo di abbonamenti e biglietti della Stagione Lirica e del 20% su quelli della Stagione Concertistica e di ParmaDanza (eccetto Parsons Dance), per i posti di platea e di palco. La promozione è valida fino a esaurimento posti.
BONUS CULTURA 18APP E CARTA DEL DOCENTE Il Teatro Regio di Parma aderisce a 18App e Carta del Docente, le iniziative a cura del Ministero dei Beni e delle Attività Culturali, della Presidenza del Consiglio dei Ministri e del Ministero dell’Istruzione riservate ai neo-maggiorenni e ai docenti. Per informazioni www.18App.italia.it; www.cartadeldocente.istruzione.it
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Parma, 12 febbraio 2022

Paolo Maier
Responsabile Comunicazione, Ufficio Stampa, Progetti speciali
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APPROFONDIMENTI

L’opera in breve
Giuseppe Martini

A dispetto di Hector Berlioz che parlava espressamente di «guerre d’invasion», alla fine del quarto decennio dell’Ottocento le opere di Gaetano Donizetti spopolavano nei teatri francesi, dove il bergamasco aveva già messo in scena Marin Faliero nel 1835, Roberto Devereux nel 1838 e L’elisir d’amore nel 1839 al Théâtre Italien e Lucie de Lammermoor in francese sempre nel 1839 per il Théâtre de la Renaissance, sala che non godeva di sovvenzioni pubbliche e che per quello stesso 1839 aveva commissionato a Donizetti anche L’Ange de Nisida. In questa partitura era rifluita parte della musica di Adelaide, opera che poco prima Donizetti aveva abbozzato per il Théâtre Italien su un libretto tratto da Les amans malheureux di François de Baculard d’Arnaud e la cui partitura è giunta a frammenti. In quel periodo Parigi costituiva un’attrazione molto forte per Donizetti, tanto più dopo la delusione per la mancata nomina a direttore del Conservatorio di San Pietro a Majella di Napoli e la proibizione da parte della censura della messa in scena di Poliuto al Teatro di San Carlo. Anche a causa del lutto recente per la morte della moglie e della figlia, Donizetti aveva gettato tutte le proprie energie sul lavoro: nel 1838 aveva anche preparato Maria di Rudenz per la Fenice di Venezia e nell’aprile 1840 metterà in scena all’Opéra Les Martyrs, versione francese di Poliuto.
Tuttavia il fallimento del Théâtre de la Renaissance fece saltare il progetto dell’Ange de Nisida. Nell’agosto del 1840 si era però manifestata la possibilità di mettere in scena L’Ange all’Opéra, facendo slittare Le Duc d’Albe, su versi di Eugène Scribe, già progettato da Donizetti per il proprio debutto su quel palcoscenico con un libretto originale francese. Non è escluso che di questa operazione di slittamento sia stata responsabile il mezzosoprano Rosine Stolz, amante del nuovo direttore dell’Opéra, Léon Pillet, che trovava la parte della protagonista dell’Ange adatta alle proprie corde.

Il passaggio al palcoscenico della Salle Le Pelletier dell’Opéra richiedeva però alcuni aggiustamenti all’Ange e soprattutto un rialzo del tono musicale e librettistico. Donizetti ampliò la componente orchestrale (aggiungendo anche oficleide e tromboni a pistoni, recente moda parigina), inserì il balletto a inizio del secondo atto e in generale apportò un raffinamento stilistico alla partitura, che assunse il titolo di La favorite. Il debutto avvenne il 2 dicembre 1840 e del cast oltre alla Stolz erano parte anche due star dell’Opéra, il tenore Gilbert Duprez e il baritono Paul Barroilhet. L’accoglienza fu entusiasta da parte del pubblico, divisa fra consenso incondizionato e critiche severe da parte della stampa. In Italia fu presto tradotta con il titolo La favorita (con adattamenti anche musicali alla nuova prosodia) e così spesso allestita anche all’estero, divenendo una delle opere di Donizetti più amate e rappresentate, oltre che cavallo di battaglia di interpreti come Fiorenza Cossotto, Alfredo Kraus, Fedora Barbieri, Gianni Raimondi, Ettore Bastianini, Shirley Verrett e Luciano Pavarotti. La romanza “Spirto gentil” (la cui musica Donizetti rifuse dal Duc d’Albe) è divenuta uno dei pezzi forti del repertorio tenorile.

Consapevole delle critiche che in Francia provenivano alla ripetitività e alla leggerezza dell’opera italiana, Donizetti compie con La favorite un attento lavoro di mediazione fra gusto francese e italiano, eliminando alcune cabalette, scorciando le cavatine, plasmando in modo più dinamico le strutture sceniche, assottigliando la distinzione fra recitativo e declamato e quella fra declamato e aria vera e propria. È il primo passo su una strada che Verdi vorrà percorrere fino in fondo, trovandola lastricata di difficoltà e delusioni. Priva di musiche di cerimoniale e di scene altisonanti, è un’opera certamente di profilo assai snello per le abitudini dell’Opéra. Ma il risultato del lavoro di Donizetti resta una delle sue partiture più eleganti, e non solo nel celebrato quarto atto, per cui si spiega l’affermazione di Arturo Toscanini quando diceva che «La favorita è tutta bella!».

Il libretto
Giuseppe Martini

Furono gli stessi Alphonse Royer (1803-75) e Gustave Vaëz (pseudonimo di Jean-Nicolas-Gustave Van Nieuwen-Huysen, 1812-62) a rimettere mano nel 1840 al loro libretto dell’Ange de Nisida preparato per Donizetti l’anno precedente in vista della messinscena, poi saltata, al Théâtre de la Renaissance. I due non erano di primo pelo, ma non avevano mai scritto per l’Opéra: avevano tradotto libretti d’opera e drammi classici in francese, Vaëz aveva lavorato al “pastiche” Robert Bruce di Rossini e Niedermeyer. Non è del tutta chiarita la questione se Eugène Scribe, il librettista principe del grand-opéra, sia stato coinvolto in parte nel rifacimento del libretto per compensarlo dallo slittamento del progettato Le Duc d’Albe.

La trasformazione dell’Ange in La favorite comportò lo spostamento di luogo (dall’isoletta di Nisida e da Napoli alla Spagna), di epoca (dal 1470 al 1340) e di qualche nome di personaggio (Fernand d’Aragon divenne Alphonse XI, Léon de Casaldi divenne Fernand, la contessa Sylvia de Linarès divenne Léonor de Guzman), l’abolizione dei toni comici, la parte di Don Gaspar fu riscritta, mentre analogo quantunque più compatto resta l’intreccio, con lievi differenze solo nella prima parte fino alla scena del matrimonio. Oltre a quella di Alphonse XI, storica è la figura di Léonor de Guzman (1310-51), che fu realmente sua amante per più di vent’anni, e con il quale ebbe dieci figli. D’invenzione sono invece Balthazar e Fernand.

Il testo francese di Royer e Vaëz fu tradotto nel 1841 in italiano per l’editore Lucca – e prima stampato sulla partitura che sui fascicoli destinati alla vendita – da Francesco Jannetti, traduzione che Donizetti (non consultato in proposito) disapprovò. Oltre a italianizzare i nomi, sostituire con versi sciolti italiani i versi alessandrini francesi e ad accorpare o scindere alcune scene, Jannetti si assunse il compito di alleggerire alcune situazioni rispetto all’originale francese, per rendere più digeribile alle censure la vicenda di un novizio che abbandona il convento per amore e di un sovrano che intende sposare l’amante, e furono eliminati i riferimenti al Papa e alla Chiesa. Nemmeno l’autorità del manzoniano “Come parli, frate?” bastò a sottrarre “Moine, que dites-vous?” dalla mitigazione in “Veglio! Che parli?”. Inevitabile che a quel punto Jannetti si costringesse anche a ritoccare a molti versi per rendere coerenti i contenuti. Non solo. Jannetti trasformò Baldassarre in un monaco laico con due figli, di cui uno è Fernando è l’altra è addirittura la regina (Alfonso gli si rivolge nel secondo atto con le parole: “Rispetto io deggio / della mia sposa al genitor”), col risultato di rendere Fernando cognato di Alfonso (che però, anche quando gli si para innanzi, non pare conoscerlo).

Eppure tutto questo non bastò a garantire immunità alla circolazione dell’opera. Per la prima italiana a Padova nel 1842 la censura obbligò a intitolarla Leonora di Guzman. A Roma nel 1860 andò in scena intitolata Daila, ambientata fra gli Ottomani nel XIV secolo, con testo misto delle due precedenti. La Scala addirittura commissionò una traduzione liberissima a Calisto Bassi, che la ambientò in Siria nel 1113 con il titolo Elda. Inoltre dal 1843 cominciarono ad apparire allestimenti con il sipario che calava subito dopo la morte di Leonora, mentre in altri si continuò a usare il finale di Jannetti con l’intervento di Baldassarre e dei monaci.

Tutti questi cambiamenti hanno creato enorme confusione nei testi in italiano, con l’adozione di versioni diverse del finale (con prevalenza di quello troncato) e con spostamenti erronei di battute da un personaggio a un altro. Ma la traduzione di Jannetti è ancora oggi largamente in uso e dunque, anche per via del radicamento dei pezzi più celebri nella memoria collettiva, correggibile ma difficilmente espungibile.
Nell’originale francese il libretto della Favorite ha fatto scuola, soprattutto ai librettisti di Don Carlos di Verdi. Si pensi per esempio a “Prêtre, n’oubliez pas ce qu’on doit / à son roi!” e in Don Carlos “Prêtre! J’ai trop souffert / ton orgueil criminel”. Se invece molti passaggi della traduzione di Jannetti sembrano riecheggiati soprattutto nel teatro verdiano, non si tratta emulazione dei poeti, ma solo dei diffusi e condivisi fenomeni linguistici dei libretti d’opera italiani.

Sinossi

Atto primo. Nel convento di San Giacomo di Compostela il padre superiore Baldassarre mentre segue il corteo dei frati scorge Fernando, il novizio destinato a succedergli, visibilmente assorto. Il giovane gli confessa di essere innamorato di una donna che ha visto in chiesa pregare accanto a lui, di cui non conosce il nome né l’estrazione sociale (introduzione “Una vergine, un angiol di Dio”) e perciò vuole lasciare il convento, a dispetto delle esortazioni di Baldassarre, che lo ha avvertito delle insidie della vita mondana. La scena si sposta allora sulla spiaggia dell’Isola di Léon, vicino a Siviglia, dove Ines e altre donne attendono l’imbarcazione che dovrebbe portare Fernando dalla sua sconosciuta innamorata (coro “Bei raggi lucenti”). E Fernando arriva: bendato, senza capire dove è stato condotto. Incontra allora la sua Leonora (duetto “Ah mio bene, un Dio t’invia”). I due si dichiarano amore ma Leonora tuttavia si ritrae confessandogli di non potergli rivelare la propria identità e neppure tutto quanto la riguarda, avvolto in un segreto. Leonora lo ama, ma non può sposarlo (duetto “Ch’io debba lasciarti”). È a quel punto che Ines, damigella di Leonora, annuncia l’arrivo di re Alfonso XI. Fernando – stupito della visita – non può restare, deve allontanarsi. A compenso del proprio sentimento, Leonora gli dà una lettera che gli permetterà di conoscere il suo futuro in cambio della promessa di dimenticarlo. Quando Leonora si allontana, Fernando la legge, apprendendo di essere stato nominato capitano. Ma è un idealista, e anche un poco ingenuo. Si convince che Leonora sia una dama di rango e che il re, quantunque sposato, sia non più che un suo pretendente (aria “Sì, che un tuo solo accento”).

Atto secondo. Il re Alfonso, innamorato, passeggia per i giardini d’Alcázar a Siviglia. Con Don Gasparo commenta la vittoria spagnola sui musulmani, e riconosce gran parte dei meriti della battaglia a questo giovane Fernando, a cui vuole tributare pubblico onore. Per questo ordina a Gasparo di preparare una festa, ignorando l’annuncio di una visita di una delegazione papale. Prima però, anche se lo aspetta il pontefice, intende ricevere la sua amante Leonora, con cui da tempo ha una relazione che la corte e la curia romana osteggiano (cavatina “Vien, Leonora, a’ piedi tuoi”). Ma a Leonora – che ha saputo delle gesta di Fernando e si sente oppressa dalla vergogna della propria situazione – la condizione di amante del re a cui è relegata non la aiuta a sollevare il proprio dolore. Alle sue proteste, Alfonso le promette che ripudierà la regina senza ascoltare il Papa, nonostante Leonora lo avverta di non compiere azioni impulsive. Entrano dame, cavalieri e paggi, pronti per la festa. Ma arriva anche Gasparo, che si avvicina al re. Lo avvisa di aver intercettato un foglio di un uomo indirizzato a Leonora. Interrogata da Alfonso, Leonora ammette di essere innamorata di un giovane, di cui non rivela il nome.
In quel momento irrompe Baldassarre, seguito da alcuni monaci che recano una pergamena. È lì in quanto inviato dal Papa: la pergamena è la bolla di scomunica ad Alfonso, reo di adulterio.

Atto terzo. Fernando è arrivato a corte, convocato dal re per essere premiato. Alfonso a sua volta si aggira pensieroso commentando con Gasparo la notizia della scomunica. Quando incontra il giovane soldato, gli annuncia la ricompensa, e Fernando risponde che la miglior ricompensa è la mano di una nobildonna che ama. Alfonso gli chiede chi sia la sua innamorata, e Fernando addita Leonora, che appare in quel momento nella sala. Alfonso ne è sorpreso, ma mantiene i nervi saldi. Decide all’istante di far sposare i due, per vendicarsi del tradimento di Leonora e tornare in seno alla Chiesa (terzetto “A tanto amor, Leonora, il tuo risponda”). Nella propria stanza, Leonora ormai alle strette decide di raccontare tutto di sé a Fernando, decisa a morire piuttosto che disonorarlo (aria “Oh, mio Fernando, della terra il trono”) e manda Ines a cercarlo. Ma la dama viene sorpresa da Gasparo, che la fa arrestare. Fernando intanto è ammesso a corte, gonfio di orgoglio, per ricevere un titolo cavalleresco ed essere nominato Marchese di Montréal. Poi arriva Leonora per il matrimonio. Accolta benevolmente da Fernando, crede che lui sappia già tutto da Ines e l’abbia perdonata. Mentre si svolge la cerimonia, Alfonso si apparta contrariato (finale “Già nell’augusta cella”). Ma quando si rivolge ai cortigiani, Fernando viene trattato con sprezzo credendolo consapevole della situazione. Il giovane arriva al punto da sfidarli a duello.
Solo quando arriva Baldassarre e gli rivela la verità, Fernando capisce di aver sposato la favorita del re. In preda all’indignazione, si scaglia contro il re e contro Leonora, getta a terra la decorazione cavalleresca, spezza la spada davanti al re e se ne va seguito da Baldassarre, ma questa volta i cavalieri si inchinano per farlo passare.

Atto quarto. Di nuovo nel monastero di San Giacomo. I monaci stanno scavando le loro tombe nel sagrato, Baldassarre esorta i pellegrini alla preghiera (aria “Splendon più belle”). I monaci rientrano in chiesa. Fernando sta per prendere di nuovo i voti. Ma non riesce a togliersi dalla testa Leonora (aria “Spirto gentil ne’ sogni miei”). Ma Leonora è lì. Nascosta in un saio da novizio, è distrutta dal dolore e in fin di vita. Sente la voce di Fernando mentre prega durante la cerimonia di vestizione, e vuole chiedergli perdono. Quando esce, la riconosce e resta sconvolto (duetto e finaletto “Ah, va, t’invola”). La donna si dice innocente, gli implora il perdono. Fernando è di nuovo preda del sentimento. Le propone addirittura di fuggire con lui. Ma Leonora non ce la fa più: muore tra le braccia di Fernando, benedicendolo.

Note di direzione
Matteo Beltrami

Se dal punto di vista cronologico La favorita rientra ancora nel periodo operistico che chiamiamo convenzionalmente belcantista, in realtà è davvero un po’ ai limiti di quel mondo. Tanto per cominciare, la tessitura vocale pretende molto dagli interpreti, soprattutto nella parte di Leonora che, pur di assegnazione mezzosopranile, ha intere frasi posizionate sul passaggio di registro. In secondo luogo, l’orchestrazione utilizzata qui da Donizetti è molto corposa, e si avverte ancora di più con gli strumenti moderni: gli accenti risultano sempre molto drammatici e sono richiesti volume e capacità interpretativa decisamente matura. Ecco, La favorita è veramente un’opera per interpreti maturi. Non è affatto semplice da restituire. Anche se non è esente da melodie orecchiabili, è anche irta di momenti spigolosi, alcuni addirittura problematici, e di altri in cui l’azione ristagna. Queste caratteristiche rendono difficoltoso dal punto di vista direttoriale trovare un filo interpretativo che conferisca coesione all’opera, tanto più oggi, quando la capacità di concentrazione e la percezione del tempo così condizionata dalla tecnologia sono molto diverse da quella degli anni Quaranta del XIX secolo. Nella Favorita ci sono vere e proprie oasi in cui il tempo sospeso risulta molto difficile da adattare alla nostra percezione dell’azione.

Inoltre, La favorita è un grand opéra di dimensioni ridotte rispetto allo standard di quel genere in quegli anni, e la versione italiana è ancora più snellita. In questo allestimento si noterà ancora di più questo ridimensionamento che la porta ad assumere le fattezze per noi più confidenziali del modello operistico italiano, dal momento che per motivi legati all’emergenza sanitaria si è deciso di non mettere in scena i balletti, come del resto spesso si faceva con i grand opéra tradotti in italiano. In questo modo in compenso viene accentuata la natura di dramma intimo di quest’opera, che è il dramma di Leonora dilaniata fra un nuovo amore e la sua difficile posizione sociale.

È vero, il dramma amoroso coinvolge anche Fernando e in parte anche Alfonso. Ma è soprattutto quello di Leonora, e si rivela nel quarto atto, quando i nodi si sciolgono e la concezione dell’opera si rivela. Qui la vicenda è come un serpente che abbandona la vecchia pelle, quella di Leonora favorita del re, quella degli stereotipi di corte. I primi tre atti sono intasati di codici e convenzioni, anche nella forma musicale, ma nel quarto i personaggi si scrollano di dosso le convenzioni e si rivelano nella loro autenticità: Fernando non è più il ragazzo che è diventato marchese, Leonora è tornata donna reale in cerca di un perdono, di essere riconosciuta come donna capace di provare sentimenti veri. È l’epilogo naturale della loro esistenza. A questo punto la loro missione si esaurisce. Con il loro duetto che rappresenta il momento di unione delle loro anime, sono andati già al di là di se stessi. Anche il percorso verso questo traguardo passa attraverso difficoltà vocali e strumentali. E Donizetti approda a un’idea di teatro proiettata in avanti: l’ultimo atto ha abbandonato ogni residuo belcantista ed ormai è musicalmente già pieno Ottocento romantico.

Note di regia
Andrea Cigni

La storia di La favorita è una storia di ruoli e di personaggi, delle differenze sociali tra questi e delle dinamiche affettive e di potere che li regolano. I ruoli e i personaggi sono il centro drammaturgico più importante. Poco importa in realtà il contesto storico o geografico della vicenda. Sono però importanti le relazioni tra i protagonisti e dunque uno spazio fortemente simbolico e significativo ove tutto si svolge e prenda vita. La sincerità, la chiarezza dei personaggi, il loro essere ‘veri’, è nascosto dal ruolo e dunque dal costume che li protegge e che impedisce di essere se stessi. Il coro ha una funzione essenziale di commento all’azione, come se fosse spettatore distaccato ma presente di qualcosa che si svolge davanti a lui, come se assistesse a un teatro (nel senso filologico del termine, ovvero ‘azione del guardare’) rappresentato da Fernando, Alfonso, Leonora. E dunque dobbiamo andare a scoprire la verità nascosta dentro ai costumi dei personaggi stessi, che impongono un ruolo nella società e che rappresentano una specie di ‘corazza’ ai sentimenti, ma anche una protezione rispetto alla collocazione sociale che hanno.

Siamo partiti dunque dall’idea del Teatro Anatomico, luogo dove si “esaminano” profondamente (fisicamente) gli individui e che qui vorremmo riproporre come “analisi” e disamina dei sentimenti, delle viscere affettive dei personaggi, del loro essere veri sotto una pelle (rappresentata dal costume) che solo quando viene tolta li lascia sinceramente esprimere ciò che sentono, provano, vivono mostrandoci i loro sentimenti, la loro sofferenza, la loro angoscia, il loro amore, la loro verità. Poco importa a dire il vero se è Spagna e se è il 1340. Ciò che conta è la dinamica drammatica raccontata allo spettatore (e dunque anche al coro che ha questa funzione in scena).

Lo spazio dunque è quel Teatro Anatomico cui accennavo poco sopra, il luogo dell’autopsia dei corpi (e nel nostro caso dei sentimenti), con un centro di azione, una sorta di agone drammatico, osservato dalle tribune ove prende posto il coro (opportunamente collocato) che è spettatore e giudice delle storie che vengono analizzate e dentro al quale si svolgono gli eventi. Lo spazio del teatro diventa così tutti i luoghi di cui la storia ha bisogno: convento, palazzo, giardino, chiesa ed anche spazio della memoria e dell’espressione dei sentimenti. E tutto acquisisce senso e valore grazie ai costumi (la pelle che sta sui personaggi) e all’attrezzeria che ci rivela dove ci troviamo e ci aiuta come strumento di analisi.

Il tavolo del teatro, quello che stava al centro, è per noi una cassa, un armadio, una teca, un baule, dentro al quale sono custoditi i costumi e gli accessori che occorrono a completarlo. Non tutto, ma gli elementi più significativi del costume, che i personaggi indossano per nascondere la verità del loro essere e sentirsi protetti, ma anche infastiditi dall’uso del costume stesso (come Fernando nella prima scena).
Il costume permette ai personaggi di essere “al sicuro” finché non devono rivelarsi per ciò che sono. Fernando ad inizio opera rifiuta il costume da religioso per essere se stesso. Incontra Leonora che però ha il costume da Favorita e che le permette di collocarsi nella società ed essere amante del re. Il re ha il costume che gli attribuisce potere e forza, lo stesso potere e la stessa autorità che Baldassarre trae dal proprio costume. Fernando usa il costume da soldato per essere ‘abilitato’ agli occhi del re e dunque di Leonora. E così via. Ma quando alla fine, nonostante Leonora si nasconda dentro al costume di novizio per poter incontrare Fernando, i personaggi si rivelano per ciò che sono, senza costume e si dichiarano amore, ormai la loro protezione viene meno e si ritrovano nudi, soccombendo, davanti ai loro sentimenti, alla verità dei fatti. Una situazione che per Leonora, fragile, ormai è insostenibile, essendo stata da sempre protetta dal ruolo che ha avuto fino a quel momento.

La scena è dunque funzionale allo svolgersi delle azioni, introducendo via via elementi che servano al racconto e allo svolgersi della vicenda, per permettere anche agli spettatori/coro (e dunque allo spettatore in breve) di comprendere meglio la vicenda ed il contesto. Il costume è neutro quando i personaggi agiscono e si mostrano per quello che sono e si arricchisce degli elementi (storicizzati) dei costumi che permettono loro di essere il personaggio richiesto. Ci interessa così analizzare minuziosamente, come avviene per un corpo nel Teatro anatomico, la storia tra i personaggi, le dinamiche dei loro comportamenti, la sintesi dei loro sentimenti. È assolutamente affascinante capire come, per mantenere una credibilità e un ruolo sociale, il costume intervenga sulle persone e che valore semantico questo ricopra nella drammaturgia e come lo spazio, che non è orpello o di contorno, diventi in realtà spazio vivo e vitale dell’agire analitico di chi assiste alle vicende rappresentate.

Una storia semplice
Giuseppe Martini

Tanto per cominciare: Gaetano Donizetti, l’italiano diventato incubo dei francesi che a un certo punto se lo ritrovavano in tutti i loro teatri (e con gusto, peraltro), se ne impipa di Profeti e Ugonotti e Guglielmi Tell e confeziona un grand opéra senza grandeur, con una trama semplice e, diciamolo pure, abbastanza prevedibile. Non ci sono colpi di scena nella Favorita, a parte le irruzioni di Baldassarre, questo monaco savonaroliano con puntualità da sit-com. Al limite, qualche stranezza: Fernando che per andare a trovare la sua amata fa, chissà perché, un gran periplo circumnavigando la penisola iberica dalla Galizia a Siviglia, quando avrebbe potuto tagliare per la Castiglia; la pantomima della sua accoglienza bendato, che sa di Barbagia più che di Andalusia; il clamoroso dietro-front di lei, però soffertissimo e supportato da una specie di promozione a capitano d’esercito che è più una scommessa sulla fiducia che un’ipoteca sul futuro; la riapparizione di Leonora al convento di lui – nel frattempo riaccolto come si compete alla pecorella smarrita – in uno stato fisico compromesso in modo pressoché inspiegabile (di certo non è arrivata in barca). Il pregresso è più o meno lasciato all’immaginazione, tanto conta poco: per esempio come e dove si sono conosciuti i due e perché lei non ha messo subito le cose in chiaro.

A sua volta la versione italiana dell’opera pasticcia ulteriormente i dettagli facendo del Re il cognato di Fernando e il genero di Baldassarre, e sfumando in una lontana foschia il ruolo del Pontefice (“pastor sommo”) che pure non la manda a dire alla Corona di Spagna e sibila scomuniche e anatemi. Anche questo collabora a stemperare la solennità storica che certamente nell’allestimento parigino del 1840 non mancava: se Eugène Scribe ha avuto un ruolo in quella messinscena, e lo ha avuto, è credibile che abbia davvero preteso scenografie «severe e ridenti», oltre che di volta in volta adatte alla circostanza psicologica dei personaggi. Donizetti ci avrà contato molto per far risplendere un’orchestra appositamente rimpolpata da percussioni, oficleide e tromboni a pistoni – una delle mode parigine del momento – e un balletto d’ordinanza, qui non più splendido di altri a cui si era abituati in quel teatro, però elegantissimo nella sua mistura di timbri, così da prendersi senza invadenze il proprio spazio coerente all’ambiente di una corte sovrana. Gli stessi concertati ampliano decisamente la dimensione scenica: quello del finale secondo ha una crescita lenta ma costante, intessuta in un accurato contrappunto e non necessariamente giocato sulle dinamiche, ma anche sulla solennità “rossiniana”, come nel declamato di Baldassarre con gli ottoni sullo sfondo; il terzo unisce forza drammatica, asprezze e sapienza di sviluppo.

È cosa risaputa che La favorita sia banco di prova donizettiano per l’articolazione della drammaturgia musicale, anche nel difficile equilibrio fra residui di schemi italiani e prassi francesizzante. Di là il “da capo” nell’aria di Fernando alla fine del primo atto, di qua le romanze “Una vergine, un angiol di Dio” e “Spirto gentil”. Di là le sopravviventi cabalette di Alfonso e Leonora nel secondo e terzo atto, di qua i recitativi-ariosi, frese per squarciare nel basalto una vicenda che, quantunque attraversata in primo piano dal fervore e della delusione dei sentimenti, è abbuiata dalle invettive di Baldassarre e dalla lesa maestà dell’onore, come accade in tanti drammi spagnoli.

Domina infatti un tono oscuro, messo in atto da due voci di basso e una di mezzosoprano potente, per nulla belcantista e ingolosita dal registro grave. Il solo Fernando svetta da tenorino di tradizione francese, con tutti i do sovracuti al loro posto: la parte era scritta per Gilbert Duprez, l’inventore dell’emissione di petto forzata in alto. Non sarà un segnale che sia in realtà lui, Fernando, e non la favorita Leonora, il vero protagonista di quest’opera?
Vediamo. La verifica del noto teorema di George Bernard Shaw («l’opera è quella rappresentazione teatrale in cui il tenore cerca di portarsi a letto il soprano e il baritono cerca di impedirglielo») qui cozza già contro una difficoltà: non si trova il cattivo. Non lo è Ferrando, ovviamente, giovane che fa cose impulsive da giovane. Non lo è certo Leonora, che ha il solo torto di aver gestito in modo confuso la partita doppia, o di essere schiacciata in una mascherata sociale più grande di lei. Certo non lo è Baldassarre, che per quanto barbogio e millenarista, fa il suo bravo cómpito di monaco. Né si può dire che lo sia il re Alfonso: che anzi, vedendo l’amante razzolare in aie altrui, potrebbe tranquillamente mettere in atto quelle ordinarie misure che i sovrani adottano in questi casi – convento, esilio, veleno, patibolo – e invece non solo mantiene autocontrollo anche di fronte al messaggio intercettato, che è sempre cosa fastidiosa, ma addirittura rinuncia all’amante e la fa sposare al ragazzo, risolvendo in un colpo solo una questione personale e una politica.

È evidente che non sono loro i cattivi. Non sono loro quelli che vogliono impedire al tenore eccetera. Non sono loro quelli che si oppongono alla virtù, all’amore, alla favola. Il vero cattivo, nella Favorita, è il coro dei cavalieri. Sono i cavalieri che in Fernando vedono il corpo estraneo, il novizio diventato conte e marchese, il parvenu che turba le regole non scritte della vita di corte. Lo chiamano infame e avventuriero. Gasparo, che è uno di loro, si accoda rincarando la dose: montanaro abbietto, obbrobrio insano. Lo cantano in un Larghetto che dieci anni dopo insegnerà qualcosa al Verdi alle prese con i cortigiani del Duca di Mantova. I cavalieri della corte di Alfonso XI sono la società chiusa, classista e razzista, che non ammette intrusioni nel proprio organismo, solidale fino alla nequizia con la volontà del proprio re. Bisognava aver letto Il rosso e il nero, essersi appassionati a Chateaubriand, aver conosciuto la crisi d’identità del Ruy Blas di Hugo, bisognava un po’ essersi ammalati di mal du siècle per sintonizzarsi nel 1840 sull’ossessione e la claustrofobia di Fernando, sull’attrazione irresistibile per l’aristocrazia, sulla soddisfazione sotterranea per l’ambizione ridimensionata.

Il dramma della Favorita non è infatti solo l’amore soffocato e poi redento di Leonora. Certamente, quello è in primo piano, innerva un percorso psicologico non dissimile da quello che toccherà a Violetta, è il motore della vicenda. Ma il dramma profondo della Favorita è semmai l’esclusione di cui è vittima Fernando. Fernando è il paria, è la pedina fuori posto. La sua è la storia di un’iniziazione alla cruda realtà del mondo e degli uomini, destinata a creare un disordine per cui tutti saranno destinati a pagare pegno, ma alcuni un po’ meno di altri. Non è un caso, e lo si doveva capire subito: la marcia nuziale di Leonora e Ferrando assomiglia più una marcia funebre.
E infatti la conclusione dell’opera torna nel convento dov’era cominciata, e dove i monaci scavano la propria tomba, Baldassarre parla di lutto – nella versione italiana è in realtà morta la regina di Spagna, cioè sua figlia – e Fernando lancia un’invettiva che è malcelata nostalgia all’amata, in una romanza che è la prova del nove per la capacità del tenore di tenere in pugno la platea con le mezze voci e i legati. A quel punto la riapparizione di Leonora non servirà più a salvare nessuno dei due. Il si bemolle su cui cala il sipario, così lontano da quel do maggiore che è il centro gravitazionale dell’opera, è il segno di un’incongruenza, di un errore delle cose. Un po’ troppo anche per il pubblico parigino, al quale infatti Donizetti concede la consolazione nella redenzione in cielo, se non in terra. Ventidue anni dopo, nella lontana Pietroburgo, l’uomo delle Roncole si assumerà la responsabilità di sussurrare che forse anche quella è un’illusione.

Teatro Regio di Parma
venerdì 25 febbraio 2022, ore 20.00 Opera A
domenica 27 febbraio 2022, ore 15.30 Opera D

Durata complessiva 2 ore e 30 minuti circa, compreso un intervallo

LA FAVORITA

Grand opéra in quattro atti su libretto di Alphonse Royer, Gustave Vaëz e Eugene Scribe
Musica GAETANO DONIZETTI
Casa Ricordi, Milano

Alfonso XI SIMONE PIAZZOLA
Leonora di Guzman ANNA MARIA CHIURI
Fernando CELSO ALBELO
Baldassarre SIMON LIM
Don Gasparo ANDREA GALLI
Ines RENATA CAMPANELLA

Maestro concertatore e direttore MATTEO BELTRAMI

Regia ANDREA CIGNI
Scene DARIO GESSATI
Costumi TOMMASO LAGATTOLLA
Luci FIAMMETTA BALDISERRI

ORCHESTRA FILARMONICA ITALIANA
CORO DEL TEATRO MUNICIPALE DI PIACENZA
Maestro del coro CORRADO CASATI

Nuovo allestimento del Teatro Regio di Parma
In coproduzione con Teatro Municipale di Piacenza.

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