Teatro di San Carlo
Le tre regine
Sondra Radvanovsky torna al San Carlo
Sul podio Riccardo Frizza
Dal 19 al 22 febbraio
Il soprano Sondra Radvanovsky, tra le interpreti più acclamate del nostro tempo, ritorna al Teatro di San Carlo sabato 19 febbraio alle 19 e martedì 22 febbraio alle 20 per Le tre regine, originale spettacolo in forma di concerto che presenta le tre scene finali della “Trilogia Tudor” di Gaetano Donizetti: Anna Bolena, Maria Stuarda e Roberto Devereux.
Le tre opere furono composte quando Donizetti era direttore artistico del Teatro di San Carlo dove Roberto Devereux ebbe la sua prima.
Sul podio lo specialista Riccardo Frizza, impegnato a dirigere Orchestra e Coro del Teatro di San Carlo. Maestro del Coro José Luis Basso.
Nel cast vocale anche Caterina Piva, Martina Belli, Giulio Pelligra, Edoardo Milletti, Antonio Di Matteo e Sergio Vitale (in calce la locandina completa con i rispettivi ruoli).
Dalla guida all’ascolto del programma di sala de Le tre regine
di Alberto Mattioli
Molto prima dei Tudors in tivù con Jonathan Rhys-Meyers come Enrico VIII insolitamente magro e belloccio, il primo autore di una serie di successo su una dinastia così clamorosa e alla fine così poco “inglese” (macché understatement) fu Gaetano Donizetti. Nello sterminato catalogo del Nostro, oltre settanta opere, sui Tudor ce ne sono ben quattro: Elisabetta al castello di Kenilworth (1829), Anna Bolena (1830), Maria Stuarda (1835, in effetti una Stuart, ma figlia di Margherita Tudor e nipote di Enrico VII, il fondatore della dinastia) e Roberto Devereux (1837), all’interno di una produzione dove i titoli “britannici” si sprecano: ci si trovano anche Alfredo il Grande (1823), Emilia di Liverpool (1824), Rosmonda d’Inghilterra (1834), naturalmente Lucia di Lammermoor (1835) e L’assedio di Calais (1836). Per inciso, di questi nove titoli ben sei vennero alla luce a Napoli; sette se pensiamo che anche la Stuarda fu scritta per il San Carlo dove però non debuttò mai per ragioni di censura che cercheremo di acclarare.
Non ci sono lettere dove il Nostro spieghi questa sua anglofilia; ma certo, le vicende dei “Tudori”, come li chiamava lui, risultavano ideali per il suo teatro. Dove però si intersecano con le convenienze e inconvenienze del frenetico mondo produttivo dell’opera italiana dell’Ottocento, e dunque in complicati intrecci con librettisti, impresari, committenti, censori e, venendo all’oggetto di questa serata, con i cantanti cui queste opere erano destinate. E qui bisogna fare una chiosa. Le ricerche degli storici della vocalità sono state sicuramente preziose nell’indagare quanto le caratteristiche degli interpreti cui era destinata abbiano influenzato la scrittura dei compositori. Sono tuttavia considerazioni necessarie ma non sufficienti. Estensione e tessitura dei cantanti erano certo tenute in considerazione da Donizetti, il quale però dedicava altrettanta attenzione alle loro caratteristiche psicologiche, attoriali, interpretative. In altri termini: alla loro personalità, decisiva nell’elaborazione dei personaggi in cui si sarebbe incarnata.
Anna Bolena è il primo successo duraturo di Donizetti. Aprì la leggendaria stagione di Carnevale del 1830-31 al teatro Carcano di Milano, il derby fra Donizetti e Bellini, che rispose al trionfo del rivale con La sonnambula. La Bolena racconta l’infelice fine di carriera della seconda moglie di Enrico VIII, che per lei ripudia Caterina d’Aragona e scatena lo scisma d’Inghilterra, e madre di Elisabetta I, in chiave ovviamente innocentista: Anna non ha mai tradito il marito e muore vittima di un tiranno, pagando con la vita l’unica colpa di essersi fatta abbagliare “dal soglio” e di avere perciò rinunciato al suo vero amore, ovviamente tenorile. Il librettista è Felice Romani e la primadonna Giuditta Pasta: e questo spiega molto del fascino di quest’opera che è sì già romantica, ma in una dimensione trattenuta e lirica, e che conserva, pur nello scatenamento delle passioni, una certa sua solennità tragica, si direbbe ancora neoclassica. Romani non fu mai un romantico al quadrato. E soprattutto la Pasta, mirabile in quel “sublime tragico” che le riconosceva Bellini, non soltanto non era un soprano sfogato (aveva iniziato come contralto ed era stata un celebre Tancredi), ma conservava anche dalla sua stagione rossiniana un’attitudine coturnata, antirealistica, trattenuta e, si direbbe, pudica. Anna, come molte primedonne donizettiane alle prese con l’insostenibilità della realtà, si rifugia nel delirio: ma la sua è una pazzia più nostalgica che furente, una nostalgia dell’innocenza che prende colori quasi idilliaci da perduta Arcadia, un vaneggiamento fra il lirico e il mistico che solo nell’indispensabile cabaletta finale sfocia nell’invettiva subito però volta in perdono per la “coppia iniqua” formata dall’ex marito e dalla sua nuova moglie, perdono che “m’acquisti clemenza e favore / Al cospetto di un Dio di pietà”. La grande scena finale, irrinunciabile topos nelle convenzioni operistiche dell’epoca, è estremamente ampia ed elaborata. Così la descrive Paolo Fabbri, direttore scientifico della Fondazione Donizetti di Bergamo: “Coro introduttivo, scena di follia, cantabile, tempo di mezzo arricchito dalla pregheria, cabaletta di furore: una vera scena-madre per la protagonista e una prova di forza compositiva per il Donizetti uomo di teatro, senza cali di tensione fosse pure per una singola battuta. Incastonata al suo interno, la celeberrima rimembranza di “Al dolce guidami / Castel natìo / Ai verdi platani / Al quieto rio”. Le fioriture della melodia danno sinuosità e grazia a un’ossatura musicale altrimenti essenziale fino alla schematicità. Dilatando le sillabe, quei melismi diluiscono la sostanza semantica del verso, snervandolo e sublimandolo in fonemi quasi astratti, e finendo così col creare proprio in articulo mortis una parentesi incantata e sospesa nel flusso di una vicenda cupamente e implacabilmente in marcia verso la catastrofe. Pur con tutte le tragiche intenzioni di Romani, memorabili risultano alla fine proprio questi versi così brevi e semplici, in cui la protagonista riesce per un momento a sottrarsi al suo destino di sofferenza”.
Maria Stuarda è un clamoroso caso di censura. L’opera fu commissionata dal San Carlo nel 1834. Per il libretto, tratto da Schiller, Donizetti avrebbe voluto Romani, che però stava abbandonando il teatro per assumere la direzione della Gazzetta Ufficiale Piemontese a Torino e non rispose nemmeno alla sua lettera. Il compositore mise allora alla prova uno studente calabrese diciassettenne, Giuseppe Bardari, al suo primo e ultimo libretto: sarebbe poi diventato un alto funzionario dell’amministrazione borbonica, prefetto di Polizia a Napoli nel 1860 all’arrivo di Garibaldi. Le primedonne erano Giuseppina Ronzi De Begnis come Stuarda e Anna Del Sere come Elisabetta, e alla prima prova con l’orchestra vennero clamorosamente alle mani. Pare che la Ronzi avesse interpretato in maniera così realistica la feroce invettiva della Stuarda a Elisabetta nel Finale primo (“Figlia impura di Bolena, / Parli tu di disonore? / Meretrice indegna oscena, / In te cada il mio rossore… / Profanato è il soglio inglese, / Vil bastarda, dal tuo piè!”) che la Dal Sere lo prese come un insulto personale. Le due signore, si fa per dire, iniziarono a scambiarsi dei coloriti insulti, poi passarono al pugilato prendendosi per i capelli. La Dal Sere morsicò anche la Ronzi in un braccio, ma stava avendo la peggio, stante la differenza di stazza a lei assai sfavorevole, quando gli astanti intervennero per mettere fine al match. Il mese seguente Donizetti narrò l’episodio in una delle sue lettere più celebri e divertenti, indirizzata al librettista romano Jacopo Ferretti: “Non so se sai che la Ronzi sparlando di me credendomi lunge, diceva: “Donizetti protegge quella p… della Delsere”, ed io risposi inaspettato: “Io non proteggo alcuna di voi, ma p… erano quelle due [le regine, ndr] e due p… siete voi”.Tanta ginnastica per nulla, però. L’opera non andò mai in scena, vietata dal Re Ferdinando II in persona dopo la prova generale, che pure era andata benissimo. Le ragioni non sono mai state chiarite completamente. Si disse che la Regina, Maria Cristina di Savoia, fosse svenuta assistendo alla scena del secondo atto della confessione di Maria Stuarda, dalla quale peraltro sosteneva di discendere. Questo è impossibile, perché mai la Regina, che fra l’altro era devota fino alla bigotteria e non amava affatto il teatro, avrebbe assistito a una prova generale. Probabilmente, il divieto arrivò nell’ambito di una svolta reazionaria della corte contro le opere “moderne” con il finale tragico: i nuovi drammi romantici venivano considerati pericolosi e diseducativi non tanto dal punto di vista politico, quanto da quello etico e sociale. “Ella ben sa l’influenza che queste rappresentazioni esercitano sullo spirito pubblico”, scrisse per l’occasione al Re il suo ministro di Polizia, il marchese Francesco Saverio Delcarretto. In effetti, è comprensibile che la censura di uno Stato italiano della Restaurazione non gradisse, per usare un eufemismo, che una Regina, benché la “cattiva” dell’opera, fosse apostrofata come meretrice e bastarda. Tanto più che in Italia e nei paesi cattolici la Stuarda era considerata una specie di martire della fede, fin dalla stupenda tragedia secentesca La reina di Scotia di Federico della Valle, che però all’epoca di Donizetti nessuno conosceva perché fu riscoperta da Benedetto Croce. Così il debutto della Stuarda si spostò dal ’34 al ’35 e dal San Carlo alla Scala. Merito di Maria Malibran, la primadonna romantica per eccellenza, che aveva sentito le prove dell’opera a Napoli dove nello stesso periodo cantava Amelia di Lauro Rossi, e se ne era incapricciata. Fu lei a convincere il duca Carlo Visconti di Modrone, impresario della Scala, scrivendogli anche di essere stata “a Wesminster Abby [sic] per copiarvi il costume della Maria e di Elisabetta”, un tratto perfettamente in linea con l’ossessione storicistica dell’epoca. Naturalmente, neanche alla censura absburgica del Lombardo-Veneto garbava che si cantasse di sovrane bastarde e meretrici, così la famigerata invettiva fu riscritta: “Di Bolena oscura figlia, / Parli tu di disonore? / E chi mai ti rassomiglia? / Su te cada il mio rossore. / Profanato è il soglio inglese, / Donna vile, dal tuo piè!”. Ma la Malibran, che aveva le sue idee e nessuna paura di esprimerle, non se ne diede per intesa e, pare, alla prima cantò i versi originali e non quelli censurati. Risultato: Maria Stuarda andò sì in scena il 30 dicembre 1835, ma il 12 gennaio successivo ne fu vietata ogni ulteriore rappresentazione. E dire che il blocco finale dell’opera, prima con il duetto “della confessione” con Talbot (quello che avrebbe tanto sconvolto la pia sovrana sabauda), poi con la consueta scena di cantabile e cabaletta, disegna una Stuarda perfettamente in linea con la sua immagine controriformista (e, va da sé, romanticamente innocentista): una Maria Maddalena che si pente dei suoi errori, perdona ai nemici, sale coraggiosamente al patibolo e, insomma, muore da martire.
Anche Roberto Devereux, su un libretto di Salvadore Cammarano che deriva da quello di Romani per Il conte di Essex di Mercadante, è un titolo napoletano: andò in scena al San Carlo il 29 ottobre 1837. Si scrive Roberto Devereux ma si legge Elisabetta, che è la vera protagonista di quest’opera cupa e sofferta, dove si riflette l’anno forse più doloroso della vita di Donizetti, funestato dalla morte, in rapida successione, del terzo figlio e della moglie Virginia Vasselli. Donizetti lascia la sua casa napoletana in via Nardones, dove aveva fatto base per tanti anni e due mesi e mezzo prima della “prima” della nuova opera scrive al cognato romano Toto Vasselli: “Senza padre, senza madre, sensa moglie, senza figli… per chi lavoro io dunque? Perché?”. Ma il Devereux, a riprova di quel che si diceva, è anche l’ultimo e più sapido frutto della lunga collaborazione con la Ronzi De Begnis, la vera “musa nera” di questa fase creativa di Donizetti. È per lei, la primadonna di un romanticis0mo “gotico” e crudele, che il musicista inventa alcune delle sue figure femminili più tragiche e contraddittorie, furenti e ferine, insieme vittime e carnefici, lontanissime da quelle immacolate fanciulle perseguitate dalla protervia maschile che sono le eroine pensante per l’angelica Fanny Tacchinardi-Persiani, a cominciare ovviamente da Lucia di Lammermoor. Per Donizetti, la Ronzi è invece la protagonista, nel 1832, di Fausta, una Fedra bizantina incestuosamente innamorata del figlio e di Sancia di Castiglia, che del figlio progetta invece l’assassinio. Poi è la Bianca degli Amidei di Buondelmonte, ovvero la Stuarda riscritta dopo la censura (1834) e nello stesso anno la primadonna di Gemma di Vergy, mandante dell’omicidio del marito. E, naturalmente, Elisabetta, innamorata gelosa e vendicativa di Roberto Devereux, poi pentita di averlo mandato a morte e che nel finale, ossessionata dalla visione dello spettro insanguinato dell’uomo che aveva amato, abbandona il trono al successore, Giacomo VI di Scozia (ma primo come Re d’Inghilterra), figlio appunto della Stuarda da lei precedentemente affidata al boia: tout se tient, ma qui davvero Cammarano si prende un po’ troppa libertà con la Storia. A conferma di come la vera protagonista dell’opera sia Elisabetta, è a lei che Donizetti affida la scena finale, il momento più alto del Devereux, dove al soprano viene richiesta un’ampia gamma espressiva (oltre che di ottemperare alle esigenze di una scrittura vocale tesissima), benché composta nella tradizionale scansione di recitativo, aria cantabile, il Larghetto “Vivi, ingrato, a lei d’accanto”, tempo di mezzo con l’ingresso prima di Sara e poi del di lei marito Nottingham e cabaletta conclusiva, “Quel sangue versato”, che l’Ashbrook definisce “terrificante”. E tuttavia lo schema classico viene come rifuso dall’interno, sia nell’aria, nota sempre Ashbrook, “di grande libertà melodica, dove le sue frasi [di Elisabetta] si allungano man mano che la sua emozione s’intensifica” sia nella cabaletta che ha una doppia e quasi unica particolarità: il testo del daccapo è diverso da quello della prima strofa, e si tratta di versi molto estesi nel metro, due blocchi di otto senari doppi, più due come conclusione dove, appunto, Elisabetta abdica. Donizetti era assolutamente conscio del suo valore e il 12 maggio 1838 rimbotta così un amico fiorentino cui il debutto locale del Devereux non era piaciuto: “Che di’ tu che Roberto non ha finale?… è uno fra i miei più felici […]. Il finale di Roberto vale 4 di quelli di Falliero, di Parisina etc…”. Come dargli torto?
Teatro di San Carlo
sabato 19 febbraio 2022, ore 19:00
martedì 22 febbraio 2022, ore 20:00
SONDRA RADVANOVSKY
Le tre regine
FINALI dalle opere di Gaetano Donizetti
Direttore | Riccardo Frizza
ANNA BOLENA (1830)
Libretto di Felice Romani
Ouverture
Atto II, Scena 11 – Finale
Anna Bolena | Sondra Radvanovsky
Sir Hervey | Edoardo Milletti♭
Lord Rochefort | Antonio Di Matteo
Riccardo Percy | Giulio Pelligra
Smeton | Martina Belli
MARIA STUARDA (1835)
Libretto di Giuseppe Bardari
Ouverture
Atto II, Scena 6 – Finale
Anna Kennedy | Caterina Piva♭
Maria Stuarda | Sondra Radvanovsky
Roberto, Conte di Leicester | Giulio Pelligra
Giorgio Talbot | Antonio Di Matteo
Guglielmo Cecil | Sergio Vitale
ROBERTO DEVEREUX (1837)
Libretto di Salvadore Cammarano
Ouverture
Atto III, Scena 6-Finale
Elisabetta I, Regina d’Inghilterra | Sondra Radvanovsky
Lord Cecil | Edoardo Milletti♭
Sara, Duchessa di Nottingham | Caterina Piva♭
Il Duca di Nottingham | Sergio Vitale
♭debutto al Teatro di San Carlo
Orchestra e Coro del Teatro di San Carlo
Maestro del Coro | José Luis Basso
Rossana Russo,
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Giulia Romito,
Comunicazione e Stampa
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