VERSI DI DANTE
di Luca Francesconi
Ho deciso di operare una scelta piuttosto radicale, a proposito del testo utilizzato in questa musica.
Non ho potuto né voluto usare i versi di Dante in modo descrittivo o semplicemente come si userebbe un qualsiasi testo in musica. Non mi era possibile. Un misto di pudicizia e tremore di fronte alla poesia più alta che mai sia stata scritta. Ho colto invece l’occasione di rileggere e studiare tutta la Commedia e soprattutto il magnifico Paradiso che spesso viene trascurato. Penso, ora, sia la parte più stupefacente dell’opera di Dante.
Qui egli accetta la sfida impossibile: parlare di ciò di cui non si può parlare. Danteggiando e piroettando riesce con infinita sensibilità e tenerezza, sulle ali dell’amore mai corrisposto – mai esistito – con la “donna sua” Beatrice a vedere la meraviglia dei cieli, la luce insostenibile del mistero. Il soffio vitale. Questo è l’amor che muove le cose all’infinito. E maneggiando destramente la materia teologica riesce infine a scorgere, al di là del sorriso malinconico di Beatrice, non Dio ma una effige umana, un volto anzi tutti i volti.
Il Mistero siamo noi. Come confrontarsi semanticamente con un testo di questa altezza? No, sentivo di dover fare qualcosa di musicale. Sicuramente non uno sfondo per i versi di Dante. Che non ne hanno certo bisogno, anzi. Ma lasciarmi portare dalla immensa intuizione che questa sua interpretazione del sacro ispirava.
È l’essere umano, con tutte le sue contraddizioni il centro della Commedia. Dunque noi, il nostro corpo e la nostra luce e tutte le fasi intermedie, intrise di dolore e amore. Noi dobbiamo passare per il corpo, sempre. È il nostro veicolo spaziale, di sensi e di pensiero, di istinti e invenzioni pure.
Così ho reinventato un viaggio, molto candidamente, dalla materia del rumore e del ritmo alla luce delle voci. Cavando il canto proprio dalla materia. La dimensione ctonia (possiamo chiamarlo Inferno se vogliamo) ci appartiene almeno quanto quella spirituale anzi sono due forme di spiritualità. Come nei riti dionisiaci che hanno un
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indirizzamento “vitalistico” e uno “letargico”. Lo stesso nelle esperienze sciamaniche.
In breve, le parole usate sono certamente di Dante ma generano colori e musica, proiettano senso in tutte le direzioni e non è necessario seguirne il significato letterale. Anzi leggere la Commedia in sé, i versi del poeta è un rito personale, intimo, che dentro ciascuno “va significando”. La musica lasciamola vagare nell’aria inseguendo i profumi e i bagliori, le urla e i tuoni della poesia dell’immenso Dante.
Trovo importante riportare qui i versi che vengono musicalizzati non come un libretto, ma come generatori di altri sensi, di immagini profonde, di ispirazione e di musica.
Luce
Dolci sospiri
Quanti dolci pensier, quanto disio
O anime affannate
Quali colombe dal disio chiamate
Corpo
Di qua, di là, di giù
Là, dove molto pianto mi percote
Io venni in luogo d’ogni luce muto,
Che mugghia
La bufera infernal percotendo li
[molesta
Strida, compianto, lamento
Luce
Lucevan gli occhi suoi più che la Stella:
Amor mi mosse, che mi fa parlare
Corpo
Or incomincian le dolenti note Là, dove molto pianto mi percote
Io venni in luogo d’ogni luce muto
Mugghia
Mugghia bufera infernal
Mugghia pianto soffia
Di qua, di là, di giù, di su li mena
Dolore
Parole di dolore, accenti d’ira
Voci alte
Diverse lingue, orribili favelle
E suon di man
Aria senza tempo
Crudele
Anelito
Ch’io sarei smarrito
Quali colombe dal disio chiamate,
Con l’ale aperte e ferme, al dolce nido
Volan per l’aer dal voler portate
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O anime affannate
Amor condusse noi ad una morte
L’altro piangeva
Tutto tremante
Luce
Lucevan gli occhi suoi più che la Stella
Amor mi mosse
Corpo
Io venni in luogo d’ogni luce muto
Anelito
La terra lagrimosa diede vento
Luce
Ella
Incominciò ridendo tanto lieta
Ne’ belli occhi, io credo
Ne’ belli occhi
Come in lo specchio
Un punto vidi che raggiava lume acuto
La natura del moto
Quinci comincia come da sua meta
Distante intorno al punto un cerchio
[d’igne Si girava ratto
Non altrimenti ferro disfavilla
Che bolle, come i cerchi sfavillaro.
Lo incendio lor seguiva ogni scintilla Osanna
Osanna
Così lo rimembrar del dolce riso
La mente mia da sé medesma scema
Noi siamo usciti fore Del maggior corpo al Ciel ch’è pura luce
Luce intellettual piena d’amore, Amor di vero ben pien di letizia,
Letizia che trascende ogni dolciore
E quella sì lontana Sorrise
E riguardommi
Ave, Maria, gratiae plena
La mente mia era sospesa
O donna, in cui la mia speranza vige
Io credo
Io credo, per l’acume ch’io soffersi
Del vivo raggio, ch’io sarei smarrito,
Se gli occhi miei da lui fossero avversi
Così la mente mia tutta sospesa Mirava fisa immobile e attenta
O quanto è corto il dire
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LUCA FRANCESCONI
di Gianluigi Mattietti
Nella sua musica Luca Francesconi ha sempre cercato di raccontare processi legati alla natura fisica del suono, rappresentando come una forma drammatica le sue trasformazioni, le sue metamorfosi, i cambi di stato della materia che suona. Questo tratto distintivo si può cogliere già nei lavori giovanili, dove si mescolavano influenze diverse: l’apprendistato “classico” avvenuto al Conservatorio di Milano, nella classe di composizione di Azio Corghi, l’attività nei gruppi rock, la pratica della musica per il teatro e per il cinema, lo studio del jazz, i corsi con Karlheinz Stockhausen e con Luciano Berio. All’inizio del suo percorso creativo, Francesconi ha rivisitato le tecniche compositive delle avanguardie degli anni ‘50 e ‘60 cercando di individuare una nuova sintassi, di rimettere in fase i parametri disarticolati nella musica seriale, di ricostruire un’idea di figura e di forma. Ma anche nella forma, ha sempre cercato l’instabilità, basata sulla frizione tra materiali diversi.
Provenendo da un’esperienza di generi musicali diversi, ha inizialmente cercato di ibridare linguaggi contrastanti, ad esempio nella Suite 1984 per orchestra, quartetto jazz ed ensemble di percussioni dalla Guinea, che mette a confronto elementi opposti, da Machaut alla scrittura sinfonica, alla musica africana. Questa ricerca di un “attrito dei contrari” è anche diretto riflesso della doppia natura del compositore, che si è sempre mosso tra un lato speculativo, e uno “primitivistico”, legato a una nuova idea di ritmo, e influenzato dalla musica etnica. Esemplare in questo senso è Mambo (1987), virtuosistico pezzo per pianoforte, che sovrappone un ostinato ritmico nel registro grave, una serie di linee diatoniche e una sequenza di accordi martellati. Altri tentativi di mettere in fase gli elementi della composizione, e di arrivare a una ricostruzione della forma, sono evidenti in pezzi come Da Capo (1985) per nove strumenti, e Plot in fiction (1986) per oboe e undici strumenti: il primo parte da un gesto sonoro netto, come un nucleo di energia propulsivo dal quale scaturiscono tutti gli altri elementi del pezzo, con meccanismi di trasformazione
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di natura quasi fisica (“come un gesto pittorico”), generando un unico, organico arco formale; la ricerca di forme comprensibili emerge anche in Plot in fiction, fatto di line ritmiche, nervose, e costruito su note-cardine, che assumono la funzione sintattica di un percorso narrativo, di una trama capace di guidare l’ascolto.
In questa ricerca entrano in gioco anche i meccanismi della memoria, intesa come fonte di energia creativa, e serbatoio di risonanze storiche, come dimostra il concerto per flauto Les barricades mystérieuses (1989), ispirato all’omonima composizione di Couperin, o il ciclo dei Quattro studi sulla memoria – che comprende Memoria (1990) per orchestra, basato su due battute della Sinfonia concertante di Mozart; Richiami II (1991) per ensemble amplificato, che parte da una cellula di tre note e si sviluppa allontanandosene gradatamente; Riti neurali (1991) per violino e otto strumenti, che intreccia percorsi labirintici ma con chiari appigli alla percezione, giocando su una vasta gamma di “riprese” e di rimandi tra solista e ensemble; A fuoco (1995) per chitarra e ensemble, dove i sottili impasti timbrici dell’ensemble suonano come risonanze dei suoni della chitarra.
L’idea di una forma lineare e direzionale viene negli anni ‘90, quando Francesconi amplia la sua prospettiva compositiva introducendo nuovi elementi legati al linguaggio (individuando uno stretto nesso tra la dimensione fonetica, semantica e poetica), al teatro, agli aspetti fisici dell’interpretazione musicale. Il terzo quartetto per archi, intitolato Mirrors (1993), è un gioco di specchi che genera percorsi pluri-lineari, ma ancorati a elementi fortemente connotati come fraseggio, figure ribattute, scarto di registri. Etymo (1994) per soprano, ensemble e elettronica, prende spunto da un verso di Baudelaire, usato come una piccola cellula che viene recitata e analizzata nelle sue minime inflessioni vocali, dando vita a una trama strumentale e vocale mobilissima, piena di rifrazioni timbriche. Animus (1995), per trombone e live electronics, nasce dal soffio, dalla sua graduale trasformazione in suono, e usa lo strumento come una sorta di “polmone metallico” che interagisce con la voce e il respiro dello strumentista.
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Due pezzi per orchestra, composti alla fine degli anni ‘90, rappresentano uno spartiacque verso una fase ulteriore nel percorso creativo di Francesconi, che segna uno smarcamento definitivo dai dogmi delle avanguardie: Wanderer (1999) sfrutta figure tematiche, colori espressivi, strutture formali classiche (forma sonata, passacaglia, corale) in un’architettura di vaste proporzioni, immaginata come un viaggio fantastico, ai confini del mondo. Con Cobalt, Scarlet – Two colors of dawn (2000) dimostra un approccio quasi impressionistico con la scrittura orchestrale, esplicitamente legato all’esperienza di un’alba nordica, e all’idea di tradurre in musica quelle impressioni visive, come uno studio sulla luce, dove il cobalto e lo scarlatto corrispondono anche a due concezioni del tempo: un tempo dinamico, come un divenire lentissimo, armonico e timbrico, e un tempo “circolare”, preclassico, che assume la forma di un monolite sonoro, con un materiale ritmico che si trasforma in melodia.
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La connotazione drammatica della scrittura strumentale emerge anche con maggiore evidenza nelle composizioni concertanti, che punteggiano la produzione del compositore ininterrottamente fino a oggi. In Rest (2004) per violoncello e orchestra, il solista sfrutta tutte le sue possibilità polifoniche, le allusioni folkloriche, gli estremi magmatici e evanescenti, in un ricco gioco di figurazioni messe in risalto da una superficie orchestrale usata come una sorta di filtro. In Duende – the dark notes (2014), Francesconi istilla nella parte del solista una forza primigenia, riferita al demone del flamenco e del cante hondo, e ne ricava una scrittura virtuosistica, ma sganciata dai cliché classici, con un costante senso di slancio che prende forma da gesti quasi inarticolati, con figure rapidissime che si disgregano e si riformano in continuazione. Nel concerto per violoncello Das Ding singt (2017) il compositore riprende l’idea di un concerto concepito come una “narrazione della trasformazione della materia”, spingendo agli estremi i processi di metamorfosi (a partire da una Ciaccona di Giuseppe Colombi), muovendo con estrema duttilità i materiali orchestrali, facendoli scontrare, fondendoli insieme, creando veri e propri effetti di morphing sinfonico, passando dal puro rumore, dalla materia organica e molecolare a zone “semantiche” molto connotate. In Zero Formula (2019), lo strumento solista è la chitarra elettrica della quale Francesconi riprende stilemi e gesti tipici, ma in una prospettiva “lachenmanniana”, partendo da una dimensione di instabilità molecolare, rumoristica, di “musica concreta strumentale”, generando interessanti processi di saturazione. Una ricerca dell’energia nascosta caratterizza anche il concerto per violino Corpo Elettrico (2021) dove il solista si infiltra nell’ordito orchestrale, modificando i suoi stessi caratteri timbrici, minando così la struttura architettonica del tradizionale concerto con solista.
Altro tipo di sperimentazione è quella legata alla voce, dove Francesconi esplora la potenza dell’universo semantico, e indaga i confini tra fonemi e ricostruzione del senso. In Herzstück (2012) per sei voci, parte dal testo (l’omonimo minidramma di Heiner Müller) e lo smonta esplorando diverse espressioni ed emissioni vocali, fino ad arrivare al suono puro, a un ipotetico arché del significato: ne risulta una sorta di scena teatrale, in sei variazioni, dove si intrecciano canto, parlato, scrittura polifonica, respiri, fischi, scioglilingua, brusii. La produzione operistica si confronta invece spesso con le varie forme del melodramma, reinventandole. Ballata (Bruxelles, 2002), basata su The rime of the ancient mariner di Coleridge, sfrutta ancora tecniche compositive diverse, e gioca su due livelli temporali distinti, collegati da una relazione di flashback, ancora come un viaggio a ritroso nella memoria, trasformando l’intero teatro nel ventre della nave. È invece la tradizione dell’opera buffa italiana ad essere rivisitata nel monodramma Buffa opera (Milano, 2002), metafora ecologico-politica che ha per protagonista una blatta che rivendica un posto al sole, con una musica esuberante, piena di ammiccamenti stilistici, da Mozart a Zappa. La transizione dalla polifonia rinascimentale alla monodia e all’opera seicentesca diventa lo spunto musicale di Gesualdo, considered as a murderer (Amsterdam, 2004), opera che affianca ai tre protagonisti un ensemble madrigalistico e descrive Gesualdo da Venosa come un uomo proiettato verso la modernità.
Su un complesso sdoppiamento di piani musicali e drammatici si basa l’opera Quartett (Milano, 2011), basata sull’omonimo lavoro teatrale di Heiner Müller (a sua volta ispirato alle celebri Liaisons Dangereuses di de Laclos), che concentra tutto sul dialogo tra i due protagonisti, eliminando gli altri personaggi, e inserendo dei giochi di ruolo, per cui Merteuil e Valmont interpretano anche le due donne oggetto della seduzione di Valmont: da qui, appunto, il titolo Quartett. Nell’opera di Francesconi i due protagonisti, insieme spietati e galanti, appaiono come alter ego l’uno dell’altra, generando un originale cortocircuito teatrale, un gioco vorticoso di specchi e di maschere che si riflette in una originale drammaturgia degli spazi, su tre livelli. Ancora più sofisticata la drammaturgia musicale creata da Francesconi per l’opera Trompe-La-Mort (Parigi, 2017), tratta dalla Comédie humaine di Balzac, che si dipana come un contrappunto tra quattro distinti livelli narrativi, ciascuno stilisticamente differenziato, con lunghi dialoghi innestati in un tempo narrativo meno compresso rispetto a quello di Quartett. Nell’opera Timone d’Atene (2020) che non è ancora andata in scena, si compie un ulteriore step nella ricerca delle possibilità al confine tra suono e rumore, tra semantizzazione e astrazione, applicato alla drammaturgia operistica.