Lo scopo nobilitante del Cristo di Levi
di Stefania Romito*
Il tempo della scrittura coincide con la fase culminante dalla seconda Guerra Mondiale. A fronte degli eventi terribili che insanguinavano la terra, come avrebbe potuto Levi esaltare le sofferenze personali che aveva patito durante il confino? Nessuna delle sue traversie viene sottaciuta, ma di nessuna ne viene mai ingigantita la portata. Più di quello che ha compiuto o subito, contano per lui le conseguenze mentali che ne ha tratto. Il suo problema era di assicurare la massima efficacia d’impatto sull’opinione pubblica a un resoconto di vicissitudini private, in sé poco clamorose, ma dalle implicazioni sconvolgenti. Il punto è che il concepimento del “Cristo si è fermato a Eboli” risponde alla certezza di avere una missione urgente da compiere, appena la guerra fosse finita.
Essenziale allo scopo è l’articolazione del punto di vista narrativo. Levi dà per scontato l’orientamento antifascista, suo come di coloro cui si rivolge. Scarsissimi sono gli accenni alla sua vita precedente l’arresto, giacché ciò avrebbe drammatizzato troppo il contrasto tra la civiltà urbana di provenienza e la sottociviltà agraria dove è stato sbalzato.
La difficoltà preliminare per lui era quella di calarsi all’interno di un microcosmo radicalmente alieno, adoperandosi in modo da intendere con esattezza il significato dei comportamenti di coloro che vi abitano. Riuscirvi sino in fondo gli sarà sempre impossibile, come ho sottolineato nel corso della mia relazione all’Università di Milano.
Lo sforzo cui si applica è volto essenzialmente a saggiare l’umanità degli interlocutori. Egli comprende l’opportunità di intrattenere un rapporto corretto con le autorità locali; ma al podestà don Luigino, ai suoi parenti nega, dentro di sé, ogni benevolenza. Tutti incarnano la tipologia del «galantuomo» meridionale, versione peggiorativa di quella piccola borghesia che Levi esacra al massimo grado.
Il registro preferito, parlando dei suoi personaggi, è un’ironia impietosa, nella sua evidenza immediata. Vengono registrate con puntiglio tutte le loro prove di ottusità, ignoranza, malafede. Ma raramente Levi ce ne fa sentire la voce in un discorso diretto.
Nel flusso resocontistico vengono spesso introdotte espressioni attribuibili a personaggi o voci collettive del mondo contadino, che il narratore, però, esibisce come sue. L’ostentazione di una mescolanza tra un Io supercolto e una collettività estranea a ogni intellettualismo ha un aspetto di compiacimento snobistico. Dalla calata vertiginosa nell’indistinto magico, dove realtà e surrealtà convergono, egli ha tratto un ammaestramento decisivo: il senso della morte, che permea la cultura contadina, non si oppone ma coincide con il senso stesso dell’esistenza. Si tratta di un’opera che ha come destinatari elettivi i ceti colti, ma non i letterati puri. Il Cristo adotta uno stile che congiunge disinvoltura e precisione. L’io narrante vuol metter il lettore a proprio agio, senza però rinunciare a una compostezza decorosa.
Il Cristo viene scritto negli anni atroci della seconda Guerra Mondiale. Ciò rafforza il valore come attestazione di fiducia nelle possibilità, non solo di sopravvivenza, ma anche di beatitudine esistenziale.
*giornalista e scrittrice