Bruxelles è una città bella e brutta insieme, internazionale e provinciale, speciale e ordinaria, facile e difficile. I giudizi sono contraddittori: c’è chi se ne innamora, c’è, invece, chi la considera un passaggio obbligatorio, chi vi fissa la propria dimora, chi la lascia alla prima occasione. Il giovane ristoratore abruzzese Jonathan Cardelli vi ha trovato la sua giusta dimensione, il posto dove realizzare il suo sogno aprendo «L’Atelier des Pâtes» in Rue Namur n. 4: venerdì 10 novembre si festeggerà il primo anniversario.
Sono venuto a Bruxelles – ci dice – per finire i miei studi e poi sono rimasto in città, perché me ne sono innamorato. È abbastanza a misura d’uomo, c’è abbastanza verde.
La prima cosa che ti ha colpito?
È multicentrica, non ha un centro storico e basta. C’è anche il quartiere europeo, Ixelles, Flagey, Atomium, ogni comune ha la sua particolarità: una città dai mille volti.
Che studi hai fatto?
Ho preso la laurea in Scienze diplomatiche in Italia a indirizzo Unione Europea e poi ho pensato che un master a Bruxelles fosse quasi un must, ho studiato altri due anni qui: sono rimasto e ho lavorato per la prima banca del Paese, la BNP Paribas Fortis.
E che c’entra dunque l’Atelier des Pâtes?
È un sogno di vecchia data: nella vita concreta dovevo comunque trovare un lavoro e per circa nove anni ho lavorato nell’ambito del marketing, però la prima cosa che mi è mancata da quando sono arrivato a Bruxelles undici anni fa è stata la pasta fresca, non la pasta in generale, ma la pasta fresca. Undici anni fa non era così facile trovarla, oggi è più semplice. Non trovavo all’inizio la piccola bottega della pasta fresca, all’uovo, che pure in Italia – nelle città – va scomparendo. L’idea iniziale era di avere un laboratorio di pasta fresca ma poi ho combinato la produzione di pasta fresca con il ristorante: abbiamo una cucina con macchine italiane per produrre pasta fresca e la facciamo gustare con ricette classiche o leggermente rivisitate, ma puramente italiane.
L’Atelier des Pâtes esisteva già da prima?
No, è stato concepito dal nulla.
Anche il nome l’hai pensato direttamente in francese o sei stato tentato di tenere «pasta» in italiano?
No, perché sarebbe stato uno dei tanti posti italiani. Volevo proprio andare a toccare il pubblico di Bruxelles, volevo un nome che già richiamasse la manualità, dunque Atelier … ma con «pasta» mi sembrava un’accozzaglia, mentre «des Pâtes» mi suonava molto più scorrevole.
Atelier richiama l’artigianalità ma anche la moda, l’arte, l’idea del laboratorio: che cosa metti di artistico nella preparazione della pasta?
A livello strutturale tutto quello che c’è nel ristorante come mobilio è stato fatto a mano da me, mio padre e mio fratello: tavoli, il bancone e le mensole in legno, luci, attaccapanni, lampadari. Inoltre, tutta la maestria dello chef Antonio produce le nostre paste e inventa le sue ricette per farle degustare.
C’è una ricetta tradizionale che hai uniformato al gusto belga?
Nessuna, né panna né salse: ogni tre mesi cambiamo menù, secondo la stagione. Ci sono dei piatti fissi e altri che cambiano ogni tre mesi. Qualche ricetta è stata modificata, ma con gusto italiano: ad esempio, la nostra carbonara è una carbonara scomposta con ‘nduja; rivisitiamo, quindi, i piatti da italiani, non al gusto belga.
E i belgi che cosa apprezzano di più?
Penso questa autenticità non dispiaccia perché chi viene qui prova piatti che non trova altrove. Una delle nostre specialità sono i ravioli farciti, presenti anche nel logo del ristorante.
E gli italiani?
Penso che vengano più per curiosità per provare l’ennesimo italiano che ha aperto. Poi vedono che il ristorante è abbastanza gastronomico, quindi tornano: vi trovano gusti autentici che richiamano la tradizione.
Per esempio?
Ci sono due piatti dedicati alle mie due nonne. Uno è la «Chitarra alla Teramana con Pallottine di Carne» tipica ricetta di Teramo: uno spaghetto quadrato il cui ragù è fatto con piccole pallottine di carne. Un’altra sono i ravioli col tartufo della mia zona, il teramano. Questi piatti vanno quasi per la maggiore: anche il fatto di chiamare i piatti «Nonna Mentina» e «Nonna Amelia» attira molto.
Evidentemente hai trasmesso il contenuto affettivo…
Penso di sì: questo elemento rende di più l’autenticità e piace ai clienti.
I prodotti?
Vengono dall’Italia: abbiamo dei fornitori con cui lavoriamo. Fra gli antipasti abbiamo le olive all’ascolana che arrivano dalle Marche. Abbiamo inventato i tartufini, olive all’ascolana nera perché c’è il tartufo, che arrivano dal mio paese ogni due settimane.
Ma l’Italia ti manca?
Più che altro gli affetti. Tutta la mia famiglia è lì: una nipotina nata da poco, per esempio. L’Italia in sé per adesso non mi manca. Mi trovo bene qui e a livello lavorativo avrei avuto meno possibilità di carriera rispetto al Belgio: posso parlare con tutta l’umiltà della situazione di meritocrazia perché non conoscevo nessuno e non ho fatto scalate sociali in base a raccomandazioni; ho dovuto lavorare per arrivare dove sono, però ci sono. In Italia sarebbe stato un po’ più difficile senza le spalle coperte.
In base alla tua esperienza, noi italiani continuiamo a essere un po’ piagnoni?
Sì, ci lamentiamo dei trasporti, il tempo e se stiamo in Italia diciamo le stesse cose. Non siamo tutti così ovviamente.
Un’esperienza come l’Atelier des Pâtes sarebbe esportabile in Italia? Sembra un paradosso…
Non lo so. Come chiedere a un cinese se aprire un ristorante a Shanghai o a Bruxelles sarebbe la stessa cosa… non sarebbe un ristorante cinese, ma un ristorante. Per l’Atelier des Pâtes bisognerebbe andare a cercare un mercato molto specifico dove qualcosa del genere potrebbe mancare: nelle grandi città non so quanto, a meno che non si crei qualcosa di tendenza.
C’è qualche personaggio famoso, qualche politico che è passato da qui?
Penso di sì, ma non lo sappiamo. Ci troviamo in una buona posizione: vicino c’è la Corte dei Conti, il Ministero degli Esteri, la Fondazione Roi Baudoin, è venuto il Cabinet di Rudi Vervoort, Ministro-Presidente di Bruxelles… Ho un mezzo pensiero da quando ho aperto: siamo l’unico ristorante la cui parete confina col Palazzo Reale e ho avuto sempre l’idea di invitare il Re a mangiare…
Perché no?
Perché un mese dopo l’apertura è uscito un articolo su Le Soir in cui si diceva che il Re mangiava senza glutine, e quindi con la pasta non va proprio bene. Chissà, però, possiamo invitare Paola e Alberto.
Qui oltre alla pasta si possono gustare antipasti e dolci. Prezzo medio?
Pasto completo: fra i 25 e i 35€. Son voluto rimanere sui prezzi standard.
Giovanni Zambito
Fattitaliani.it 1
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