La recita è la verità del destino. Il viaggio di Manlio Sgalambro verso il centenario della nascita di Pierfranco Bruni

 

La recita è la verità del destino. Il viaggio di Manlio Sgalambro verso il centenario della nascita
Pierfranco Bruni
Il tempo è un temporale nel naufragio delle vite dentro le esistenze. Tutto si perde. Tutto si ritrova. Tutto è smarrimento tra i viaggi e gli inviti al Viaggio.

Credo che ogni tempo in ogni epoca abbia avuto il suo divergente pensare o pensiero. “Che io debba essere governato: ecco da dove inizia lo scandalo della politica. La politica è la tutela dei minorati”. Ci ricorda, oltre Platone, Manlio Sgalambro. Sono un infedele, ma coerentemente vero nella verità incongrua di uno stillicidio di parole insensate. Mi appartengo e mi confesso. Tutto mi scivola tra la luna e il serpente che cerca di penetrare ogni bifora del nostro esistere da morenti. L’uomo è cattivo. L’uomo è feroce. L’uomo è un sottosuolo. L’uomo non esiste. Esiste la tragedia della inesistenza dell’uomo. Bisogna sempre conoscere il peggio per capire l’inesistenza dell’uomo. “Che non ci sia niente di peggiore del mondo, non si deve dimostrare”. Soltanto l’uomo dell’isola, ovvero l’uomo solo può creare l’invisibile. “L’Idea è raggiungibile solo in uno stato di misantropia. Il misantropo non vede più l’uomo, la cui carne detesta, ma l’Idea dell’uomo”. In una antropologia dell’idea insiste l’antropologia del non pensiero.

Manlio Sgalambro. Un viaggio tra l’invito baudelairiano e il mondo pessimo “nicciano” che si incastona tra le griglie di Cioran. Variazioni per una metafisica. Sarebbe il titolo dello sconforto per una morte che naviga tra il vuoto e la noia. Quando l’ho incontrato il suo sguardo mi ha raccontato la contemplazione, il silenzio e attraversare la noia, la “pesantezza” nella bellezza della ricerca. L’uomo è mortale come tutto è mortale. Persino gli dei immortali. Bisogna essere unici e soli per essere veri. Io e Sgalambro siamo finiti. Non eterni. L’eternità è per chi si confonde nelle uguaglianze.

Noi siamo ferocemente destino o nulla. Io sono mortale. Dio è finito. Le religioni non esistono perché sono illusioni. Io non credo nelle religioni. Dio è mortale. Tutto muore perché tutto nasce. Nonostante si sforzino di inventarsi una teologia pubblica. Una farsa per illuderci. Sto con Manlio:

“Qui vi è il tentativo di costruire una teologia pubblica ‐ anzi, se ci è concesso di mutuare uno stilema a una grande memoria, una teologia pubblica europea. Se l’epoca della teologia appare conclusa, o se ne trascina appena l’ombra, ciò è avvenuto perché gli stinti intelletti che se ne sono occupati (a parte alcune eccezioni) portano in loro il tarlo che aveva roso la disciplina. Come se questa avesse dovuto seguire le sorti della religione a cui la legava la subalternanza. La stessa caduta della religione, ormai solo oggetto di fede e di speranza ‐ squallidi sostegni del nostro incerto destino ‐, doveva favorirla e sbarazzare il campo da ogni equivoco. Che Dio esista è solo un fatterello sinistro. Niente di più. (Dato come vanno le cose, bisognava aspettarselo)”.

Anche Dio è mortale. Più degli dei. “Vera disciplina nelle cose dell’intelletto è una spietata intransigenza contro lo spirito di discussione. Ogni concessione fatta in nome della reciproca eguaglianza è un tradimento della verità su cui si fa prevalere la cortesia. Pensare divide”. Così ci dice Sgalambro. Perché l’uomo è cattivo? Perché un “Uomo giusto è chi sa questo: che egli deve annullare Dio quotidianamente affinché la misura dell’eterna giustizia quotidianamente si compia”.

Un filosofo nel tempo non della storia ma della metafisica della storia e dell’ontologia di un’anima in costante frammento di un’esistenza in cui l’io non diventa mai noi. Ma c’è l’attualismo che non è quello gentiliano. Neppure la crociana estetica ha appigli e frammentazioni lungo il pellegrinaggio degli attimi. L’antropologia degli attimi è l’antropologia della polvere che abita il nostro essere nel non esserci in altri.

Quel mondo pessimo è una variazione nella metafisica del tempo. Ce lo ha insegnato Sgalambro. Manlio Sgalambro era nato a Lentini il 9 dicembre del 1924. Muorì a Catania il 6 marzo del 2014. In uno dei suoi ultimi libri il gioco degli aforismi è l’aforismo di una vita spesa nell’attesa. Il suo avvicinarsi ai linguaggi immersi nel quotidiano o i linguaggi della canzone che ricostruiscono la visione di una poetica tutta graffiata sulle pareti della coscienza. Non esistenza una antropologia della conoscenza. Esiste una antropologia dell’essenza.

In “La porta dello spavento supremo/Il sogno”, testo di Manlio Sgalambro e Carlotta Wieck si legge: “Quello che c’è / ciò che verrà / ciò che siamo stati / e comunque andrà /tutto si dissolverà…Sulle scogliere fissavo il mare / che biancheggiava nell’oscurità / tutto si dissolverà”. Appunto nella sua teoria della canzone si avverte la metafisica della parola nel comunicante sogno di completare e contemplare la morte nel (e del) tempo. Ma il tempo muore? Non cito titoli. Ma resto legato a quella sua disperante esistenza di un linguaggio in cui il mondo pessimo è creazione ed essendo creazione è impalcatura del nostro cuore.

Ci invita al viaggio. Come la poesia maledetta ci ha indicato nel suo pensare il verso come l’esistente. E i suoi allievi hanno focalizzato questa attenzione. Credo che da Battiato a Califano abbia inciso un essere dell’uomo tra il contemplante sguardo di un Oriente tutto interiorizzato da Battiato alla fragilità dell’amore di Califano. Ma siamo nella teoria del linguaggio. Non esiste un linguaggio debole o robusto. Bisogna recuperarsi oltre la leggerezza. Sgalambro: “Un alleggerimento che considero doveroso. Dobbiamo sgravare la gente dal peso del vivere, invece che dare pane e brioches. Questa volta, mi sono sgravato anch’io. E poi, la musica leggera ha questo di bello, che in tre minuti si può dire quanto in un libro di 400 pagine o in un’opera completa a teatro”.

Esiste il linguaggio ed esiste la metafisica del linguaggio che si fa creazione. Sgalambro l’ho incontrato nel corso del mio peregrinare tra culture e sguardi nella filosofia e in quella letteratura che è poesia della filosofia. Come Maria Zambrano. Il Cioran del nichilismo nella tradizione del Tempio della Vita che è il Tempio del Cielo.

Leopardiano sino a distruggerlo nel Pessimismo: “Colui che è stato educato al pessimismo e ne è divenuto il discepolo, e per giunta, in qualità di epigono, intende trasportarlo nel proprio tempo, vede in esso un tema classico, un tema eterno. Sa bene quello che il pessimismo esige e quello che si esige da esso. Egli è il pessimista della verità, se così si può chiamare costui. Il pessimismo onora la verità: questa la tesi generale. Questo pessimista ha seguito il retto cammino dell’onore. Egli ha onorato la verità. Questo è il pessimismo che vogliamo con tutte le nostre forze, egli dice: percorrere il cammino che percorre ogni uomo che si sia accostato alla verità sino al suo nucleo più crudele, là dove essa non è più con lui. Perché la verità è il tutto contro la parte, il tutto contro di te”.

Ma il suo mondo ciceroniano si include in quella della morte del tempo che esulta nella brevità della vita di Seneca. Sgalambro supera Agostino per restare nel cerchio delle fantasie che giocano intorno alle farfalle del mistero che sono quelle gozzaniane ma sono anche le farfalle che lacerano il fiore appena nato.

Sgalambro: “Definisco il pensare come l’attenzione per tutto ciò che non è se stessi o l’attenzione per se stessi ma come se non lo si fosse. Per gli equivoci che causa, sono propenso a usare invece di “pensare”, “essere attento” e al posto di “pensiero”, “attenzione”. Uno dei benefici sarebbe quello di lasciare “pensiero” all’uso corrente. L’idea di sforzo connessa vi sarebbe ben spiegata dal concetto di attenzione che è implicito in essa. Definisco, poi, idea lo scarto tra noi e le cose. Allibisco quando sento dire che le idee e le cose sono identiche. È il potere di questo scarto che definisce la capacità di pensare”.

Tutto finisce e tutto ha un seguito. Tutto si chiude nelle stanze ovattate proustiane, ma tutto ha una sua eredità. Ci sono gli orizzonti che non bisogna mai toccare perché sono loro che camminano intorno alle nostre tristezze. Non amava Croce e Gentile era enigmatico. Di loro dirà: “Erano loro che occupavano tutto lo spazio culturale, ma io non mi ritrovavo affatto in quei sistemi complessi e completi, dove ogni cosa era già stata incasellata. Per me pensare era una destructio piuttosto che una costructio: ero uno che notava le rovine, piuttosto che la bellezza. Questo era un po’ scomodo, e non certamente accademico”.

Finalmente uno scrittore che attraversa i linguaggi della modernità e rende la parola un sentiero della filosofia oltre il concetto melodrammatico della leggerezza. Sono i futili e i deboli che si chiudono nella spiegazione della leggerezza. Noi abbiamo bisogno di penetrare le pareti della fortezza e del pesante nel capire il grimaldello che apre le esistenze. O le chiude!

Certo, Cioran è il principio di uno scavo “nicciano”. Ma non c’è tristezza. C’è la consapevolezza che il sogno radicato tra le pareti dei labirinti debba diventare non la nebbia della tragedia ma la tragedia dell’onirico. Forse Ionesco. Ma l’assurdo è altro. La filosofia dell’attesa si decifra nella filosofia di questo mondo pessimo che non ci tocca vivere perché ci tocca abitare. L’antropologia della morte investe coloro che credono viventi.

Due concetti forti e diversi. Vivere e abitare. Ma Sgalambro anche con la sua dipartita non fa altro che invitarci al Viaggio. Una poesia della ripetizione nella vita che non sgombra il terreno al senso dell’ascolto e delle conoscenze. Saremo isole. Siamo sempre isole. La teoria di Sgalambro sull’isola è molto precisa: ”Là dove domina l’elemento insulare è impossibile salvarsi. Ogni isola attende impaziente di inabissarsi. Una teoria dell’isola è segnata da questa certezza. Un’isola può sempre sparire. Entità talattica, essa si sorregge sui flutti, sull’instabile. Per ogni isola vale la metafora della nave: vi incombe il naufragio”. Un filosofo oltre le accademie e le scienze cercate. La filosofia resta il pensiero dei folli. Come la poesia. Come i linguaggi della rarefazione che sono dentro il nostro non assentarci mai. L’antropologia dell’assente invita a morire.

Anche quando non ci saremo più. E allora non sarà più un problema. Almeno per noi. Quando noi non ci saremo, Plotino sa, resteremo sempre a raccontare l’assenza sino a che le macerie diventeranno polvere nel vento e poi ci sarà il vento… perché “… i miei pensieri sono i miei unici averi. Tutto ciò che posseggo”. Eraclito era nel suo pensare e nel suo linguaggio. Citandolo ripercorreva i suoi frammenti: “La stessa cosa sono il vivente e il morto, lo sveglio e il dormiente, il giovane e il vecchio: questi infatti mutando son quelli e quelli mutando son questi”.

Ci crediamo “viventi”. Siamo soltanto dei “morenti”. Sempre più sono convinto con Sgalambro che “Se dovessimo porci il problema dell’utilità e del danno del pessimismo per la vita, non ci sarebbe che una sola risposta da dare: la verità o la vita”. Cerchiamo di non rendere memoria la conoscenza del peggio. È perenne nella quotidiana mortalità. L’antropologia della mortalità è nella vacanza di esistenza.

Approdare è giungere ad un porto. Ma giungere ad un porto non significa fermarsi. Fermare la vita? Manlio Sgalambro resta riferimento nel viaggio del mito che diventa archetipo. Si va verso il centenario della nascita di Sgalambro. La vita  cammina nella morte. O è la morte che corre nella vita? Dai Greci a Baudelaire sino a Nietzsche la recita è la verità del destino.

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