Serena conduce operaclassica eco italiano

Comunicato Stampa

Giuseppe Gibboni debutta al Teatro di San Carlo con il

 Concerto in re maggiore per violino e orchestra, op. 35 di Pëtr Ilʼič Čajkovskij

In scaletta anche la Sinfonia n. 5 in mi minore, op. 64

 Sul podio Dan Ettinger  

Mercoledì 21 giugno alle 19

 

 

Giuseppe Gibboni, vincitore nel 2021 del Concorso Paganini, premio che ha riportato in Italia dopo ben 24 anni, debutta al Teatro di San Carlo mercoledì 21 giugno alle 19. Accompagnato dall’Orchestra del Massimo napoletano diretta da Dan Ettinger, il giovane talento campano (classe 2001) eseguirà Concerto in re maggiore per violino e orchestra, op. 35 di Pëtr Ilʼič Čajkovskij, tra le pagine più difficili e tecnicamente impervie dell’intera letteratura violinistica ottocentesca, talmente popolare da avere ispirato un film di successo (Il concerto, del regista rumeno-francese Radu Mihăileanu, del 2009).

Ancora di Čajkovskij è il secondo brano in scaletta, Sinfonia n. 5 in mi minore, op. 64

scritta nel 1888, in un periodo abbastanza sereno della vita del compositore ed eseguita per la prima volta a San Pietroburgo sotto la sua stessa direzione. L’ottima accoglienza del pubblico fece sì che la “Quinta” fosse eseguita in breve tempo anche a Praga, Amburgo e Londra.

 

Nato nel 2001, Giuseppe Gibboni inizia lo studio del violino a tre anni con il padre e a sei è stato ammesso per meriti straordinari al Conservatorio. Si è diplomato a 15 anni con Lode e Menzione d’Onore presso il Conservatorio «Martucci» di Salerno sotto la guida di Maurizio Aiello. Nell’ottobre del 2015, a soli 14 anni, Giuseppe Gibboni è stato ammesso all’Accademia Stauffer di Cremona nella classe di Salvatore Accardo. Nel 2016 ha ricevuto il Diploma d’Onore ai corsi di Alto Perfezionamento all’Accademia Chigiana di Siena. Dal 2016 frequenta il corso di Alto Perfezionamento presso l’Accademia Perosi di Biella nella classe di Pavel Berman. Attualmente studia nella classe di Pierre Amoyal al Mozarteum di Salisburgo. Giuseppe Gibboni ha partecipato a vari concorsi nazionali ed internazionali classificandosi sempre al 1° posto: CAM Castellaneta, Barletta, Eratai, Denza, Trofeo Città di Greci, Campagnano di Roma, Puccini – Città di Eboli, Media Musicale, Antonello da Caserta, Jacopo Napoli, Campi Flegrei, Don V. Vitti, Napoli Nova, Luciani di Cosenza, Caccamo Benedetto Albanese, P. Mandanici – Barcellona P. di Gotto, Premio Lions 2013 Mercato San Severino, Concorso A. Vivaldi – Sapri, Orfeo Stillo – Cosenza, A. Apreda – Sorrento, V. Scaramuzza Crotone, Paisiello Lecce, Città di Magliano Sabina – Roma. Spiccano il Primo Premio Crescendo Agimus Firenze – 2016; XXIII Concorso Internazionale Violinistico A. Postacchini (con premio speciale per l’esecuzione dei capricci di Paganini) 2016; International Competition L. Kogan 2017 – Bruxelles; International Music Competition Dinu Lipatti (premio speciale miglior violinista con assegnazione violino modello Stradivari “Il Cremonese” 1715 del liutaio M° Mester); 3° premio (con I° non assegnato) al prestigioso G. Enescu International Violin Competition di Bucarest. A marzo 2019 gli è stato assegnato il Concorso Internazionale “Progetto Guglielmo”. A ottobre 2020 ha vinto il 1° Premio al 36°concorso Valsesia Musica. Giuseppe Gibboni ha conquistato il 56º Premio Paganini di Genova, oltre al premio speciale per la miglior esecuzione del concerto di Paganini, il premio speciale per il maggior riconoscimento da parte del pubblico e il premio speciale per la miglior interpretazione dei Capricci di Paganini.

 

 

 

Guida all’ascolto

A cura di Fiorella Sassanelli

 

 

 

Curarsi col pessimismo della musica di Čajkovskij

Nel 2009 il film Le Concert del regista – rumeno di origine e francese di adozione – Radu Mihăileanu compie col Concerto per violino e orchestra di Čajkovskij un’operazione simile a quella che nel 1996 Shine (regia di Scott Hicks con l’attore Geoffrey Rush nei panni del pianista David Helfgott) aveva realizzato col Concerto n. 3 per pianoforte e orchestra di Rachmaninov: rendere nota anche al grande pubblico una pagina del repertorio sinfonico che per gli appassionati rappresenta un capolavoro insuperato per bellezza, stile, intensità, spettacolare virtuosismo e romanticismo in senso lato. Tra tutti i Concerti per violino e orchestra dell’Ottocento, quello di Čajkovskij è indubbiamente “il Concerto” (per parafrasare il film di Mihăileanu), l’obiettivo principe di ogni interprete: un obiettivo ambizioso, per l’elevato grado tecnico richiesto da questa pagina che è una tappa pressoché obbligata nei programmi dei più prestigiosi concorsi internazionali. Se fosse vero, come si dice, che in una ipotetica classifica dei Concerti per violino e orchestra tocca al Concerto in re maggiore (op. 61) di Beethoven detenere il primato della quantità di esecuzioni ed incisioni discografiche, il Concerto (sempre) in re maggiore (op. 35) di Čajkovskij è secondo e a pochissima distanza dal primo. Oggi i due lavori condividono la massima fortuna, ma gli esordi (1806 Beethoven, 1878 Čajkovskij) sono stati molto difficili.

Franz Clement, il virtuoso per il quale Beethoven scrive il suo Concerto, snobba la composizione al punto che la sera del debutto (Vienna, 23 dicembre 1806), tra il primo e il secondo movimento, non esita a presentare al pubblico una Sonata per violino solo di sua composizione, di tenore ben più virtuosistico del Concerto stesso. Čajkovskij fatica non poco a trovare persino un interprete.

Nel 1878 il compositore russo, allora trentottenne, ha scelto la pace di Clarens, sul lago di Ginevra, per riprendersi dalla depressione conseguente al fallimento del matrimonio con Antonina Miliukova e alle voci ormai insistenti sulla sua omosessualità. Durante il soggiorno svizzero, è raggiunto dal giovane violinista Iosif Kotek, suo allievo per la composizione nonché prezioso collaboratore. Čajkovskij infatti non è violinista: «Non saprei fare nulla senza di lui » ammette in una lettera al fratello Anatolij, tessendo le lodi del giovane. In un mix di concentrazione e ritrovata serenità in appena un mese Čajkovskij porta dunque a termine il Concerto per violino, e ciò nonostante la riscrittura integrale del secondo movimento, la cui prima versione avrebbe costituito il primo di tre brani (Méditation) per violino e pianoforte dal titolo Souvenir d’un lieu cher (il luogo caro è forse proprio Clarens). Pur interpretando il Concerto al meglio, Kotek si limita a eseguirlo in forma privata, col compositore al pianoforte, temendo che l’eventuale notizia di una relazione tra lui e il compositore possa nuocere alla sua carriera. Per eguale prudenza, Čajkovskij si astiene dal dedicare il concerto al giovane allievo e amico e, sperando in una presentazione a Pietroburgo, preferisce rivolgere la dedica al grande violinista ungherese Leopold Auer, allora leggendario professore di violino al conservatorio di Mosca. Auer però respinge il Concerto giudicandolo – secondo alcune voci – «insuonabile» e pur apportando alcune modifiche alla parte solistica, rifiuta di eseguirlo. Čajkovskij, mortificato, ritira la dedica (anni dopo Auer avrebbe ritrattato le sue posizioni, e già nel 1893, alla vigilia dell’improvvisa morte del compositore, esegue il Concerto dinanzi a Čajkovskij col quale riesce infine a riconciliarsi). Nell’impasse, tocca a Adolf Brodskij, giovane violinista già devoto a Čajkovskij, ricevere l’onore della dedica e impegnarsi per il debutto che avviene a Vienna, il 4 dicembre 1881 con la Filarmonica diretta da Hans Richter. Il pubblico viennese, che due anni prima ha accolto con favore il Concerto per violino di Brahms (anch’esso in re maggiore, come tributo al Concerto beethoveniano), giudica la partitura di Čajkovskij volgare per mancanza di gusto e fischia l’esecuzione. Il critico Eduard Hanslick, paladino della musica di Brahms, definisce il primo movimento «selvaggio», perché il violino risulta grattato, lacerato e raschiato e ciò a causa dell’eccessiva difficoltà della parte solistica: Brodskij «ha martirizzato se stesso e i suoi ascoltatori», scrive Hanslick. Pur risparmiando la Canzonetta, il critico scaglia feroci strali sul terzo movimento nel quale ritrova «la baldoria brutale e indecente di una festa popolare russa. Vediamo volti selvaggi e volgari, udiamo bestemmie, l’aria è impregnata di acquavite». Hanslick non è il solo a stroncare il Concerto, eppure a differenza di quanto accaduto per il Re maggiore di Beethoven – costretto ad attendere trentasette anni finché un giovanissimo Joseph Joachim gli restituisce ogni merito – quello di Čajkovskij si fa strada presto nel repertorio violinistico. La spettacolarità del suo rutilante virtuosismo strumentale è una lusinga imperdibile verso chi ha mezzi per gestirla. Non sono tanti a dire il vero: lo stesso Itzhak Perlman, che nel 1979 con Eugène Ormandy ha regalato in disco una indimenticabile e forse insuperata versione non ha avuto difficoltà ad ammettere che quel Concerto «è sempre scomodo, non importa quanto lo si studi». Al di là della sfida tecnica, la vertigine della partitura è nell’inventiva melodica che si offre al solista e all’orchestra. La magistrale strumentazione consente infatti a tutti – interpreti ed  ascoltatori – di amare questa musica, liberamente, e senza vergogna. Abbracciando l’alto e il basso, la grande tradizione romantica e il ritmo gitano, la composizione è un saggio di equilibrismo virtuoso e voluttuoso che stimola tutti i punti della percezione. Nel film citato all’inizio (ambientato tra Mosca e Parigi) quel Concerto è la colonna sonora di un riscatto umano, politico e sociale, da parte di un direttore e un’orchestra (del Bolshoj) che a Parigi si riprendono la propria dignità e il proprio passato. Trent’anni sono trascorsi da quando il governo Brezhnev – facendo irruzione durante l’esecuzione del Concerto di Čajkovskij – ha brutalmente sciolto l’antica orchestra del teatro e cacciato il suo direttore, colpevole di non aver voluto allontanare i musicisti ebrei al suo interno. Da allora i musicisti si sono dati ai mestieri più disparati o sgangherati, alcuni di loro hanno reintegrato le comunità rom d’origine. La possibilità di poter risuonare a Parigi quella musica di Čajkovskij dà forza e coesione a quest’umanità disintegrata, una musica che lungi dal giudicare le fragilità di ciascuno – non era lo stesso compositore, colpevole di simpatizzare per l’occidente, ritenuto autore di una musica peccaminosa ? – riaccende la scintilla della dignità e dei sogni.

Tante volte Čajkovskij – coerente con l’estetica decadente che lo informa – insiste sulla metafora del fato ineluttabile e di una vita sottomessa agli imperscrutabili disegni della Provvidenza, una vita senza via di scampo: del resto certe letture della biografia del compositore (l’idea del suicidio indotto come unica strategia per soffocare scandali omosessuali vietati in ambienti governativi) avvalorano uno stato di claustrofobia esistenziale (un pessimismo cosmico di sapore kafkiano) che non offre altra soluzione se non la morte. La Quinta Sinfonia è un esempio di questa cruda drammaticità. Composta tra maggio e ottobre 1888, ed eseguita per la prima volta a Pietroburgo il 5 novembre di quell’anno, diretta dallo stesso Čajkovskij, riportando un modesto successo, la Sinfonia è una vasta pagina sinfonica in quattro movimenti, attraversati da un unico tema conduttore. Come un’ossessiva idée fixe, il motto appare sin dal principio dell’Andante introduttivo, esposto dal clarinetto nel registro basso, intendendo esprimere, secondo l’autore, «una completa rassegnazione di fronte al destino». Quel motto torna evidente nel secondo movimento (dove si ascolta la celebre melodia accorata del corno) e poi nel quarto, ma persino nella coda del terzo, un valzer che sa sì di alleggerimento ma nient’affatto di svago. Sappiamo tuttavia che a fronte di quest’impianto iniziale, il compositore si allontana dal programma lasciando che la sinfonia prenda naturalmente forma dagli elementi di cui è composta: una gamma infinita di colori, una densità del gusto tale da sentirne fisicamente la grana, una smisurata ricchezza melodica, affetti dolci e malinconici a profusione, compiacimento narcisistico, a tratti autolesionistico. Ovvero tutto quello che serve per sentirsi vivi e rinascere. «Solo la musica illumina, rasserena, consola. Non è solo un fragile supporto a cui aggrapparsi. E’ un’amica fidata che protegge e conforta e solo grazie ad essa vale la pena di vivere in questo mondo. Forse in cielo la musica non ci sarà. Perciò restiamo su questa terra finché la terra ce lo consente» (Pëtr Il’jč Čajkovskij).

 

 

 

Teatro di San Carlo
mercoledì 21 giugno 2023, ore 19:00

DAN ETTINGER / GIUSEPPE GIBBONI

 

Direttore | Dan Ettinger

Violino | Giuseppe Gibboni

 

Programma

 

Pëtr Il’ič Čajkovskij
Concerto per violino e orchestra in re maggiore, op. 35
Sinfonia n. 5 in mi minore, op. 64

 

 debutto al Teatro San Carlo

 

Giuseppe Gibboni è Vincitore del premio Paganini 2021

 

 

Orchestra del Teatro di San Carlo

 

 

 

 

 

 

 

 

Con gentile preghiera di pubblicazione e/o diffusione

Rossana Russo,

Responsabile della comunicazione creativa e strategica e relazioni con la Stampa

r.russo@teatrosancarlo.it

cell 3357431980

 

Giulia Romito,

Comunicazione e Stampa g.romito@teatrosancarlo.it 0817972301

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