SAN FRANCO D’ASSERGI, DON PIETRO E FERDINANDO IV DI NAPOLI
di Giuseppe Lalli
ASSERGI (L’Aquila) – Oggi 5 giugno, tra i Santi del giorno, la Chiesa venera San Franco d’Assergi. Il culto di San Franco d’Assergi, santo eremita del Gran Sasso, fino a qualche decennio fa, era molto diffuso in tutto l’Abruzzo e anche fuori della regione. Particolarmente cara era la memoria del santo agli abitanti del contado teramano. San Franco, infatti, oltre che di Assergi, è patrono del borgo di Forca di Valle, in provincia Teramo. A tale proposito si narra di un certo Pietro, della nobile famiglia forchese degli Iacovoni, che aveva prestato per molti anni servizio presso la corte di Ferdinando IV di Napoli in qualità di guardia d’onore.
Venendogli a noia questo sua occupazione, decise un giorno di ritirarsi a Forca di Valle, non solo per attendere ai suoi interessi di ricco proprietario terriero, ma anche per dedicarsi a suo bell’agio al culto del santo eremita, dalla cui personalità si era sentito fortemente attratto fin da ragazzo. Forse a noi smaliziati uomini moderni questi gusti fanno sorridere, presi come siamo a coltivare ben altri più …solidi miti, come quello dei cantanti, degli attori, dei sportivi, degli uomini politici; ma – che volete? – nei tempi andati accadevano anche di queste stranezze.
Era, questo Pietro, un uomo assai originale, a partire dalle sue fattezze fisiche: un vero gigante. I suoi genitori, forse presagendo le sue forme colossali, avevano pensato bene di affibbiargliene ben due di nomi: lo chiamarono Pietro Franco, quest’ultimo sicuramente in onore di San Franco. L’uomo era, per la verità, complice forse il suo eccezionale aspetto fisico, dai modi spicci, e alquanto collerico. I suoi compaesani, in segno di rispetto, lo chiamavano “Don Pietro Franco”. Parendogli troppo lungo, si faceva chiamare solo “Don Pietro”, riservando il “Franco” all’onore da tributare al santo, di cui era devoto fino all’inverosimile. Non aveva esitato a chiamare Franco entrambi i suoi figli maschi: Franco I° e Franco II°… All’entrata del paese aveva fatto erigere un tempietto in onore del santo, con tanto di iscrizione dedicatoria incisa sull’architrave del portale: “Templum fecit Petrus Iacovonis anno Domini 1774”.
E fin qui niente di male. Il male, ahimé, venne un giorno di giugno, quando a Forca di Valle si celebrava la festa di San Franco. Possiamo immaginare quanto entusiasmo e attivismo Don Pietro mettesse nel festeggiare il suo celeste beniamino. Voleva che la processione seguisse un percorso lunghissimo. Senonché, un gendarme, mandato lassù per gestire l’ordine pubblico, vedendo che minacciava di piovere, si permise di ordinare di accorciare il tragitto della processione. Apriti cielo! Don Pietro, per il quale il culto a San Franco era quasi una faccenda privata, non trovandosi per nulla d’accordo con la decisione del responsabile dell’ordine pubblico, non esitò, forte e grosso com’era, a sferrargli un pugno – quanto poderoso possiamo immaginarlo! -, tanto che la povera guardia stramazzò a terra morto.
Nemmeno in quei tempi di “oscurantismo religioso” pare che la giustizia fosse disposta a riconoscere attenuanti ai devoti di San Franco. Così Don Pietro, per sfuggire alla condanna a morte, fu costretto a darsi alla macchia, o, meglio, a fare frequenti passeggiate nei boschi, quando qualcuno aveva cura di preavvisare i familiari che stavano venendo le guardie per arrestarlo.
Stanco di questo stile di vita, e parendogli inopportuno chiedere l’intercessione del suo celeste protettore per evitargli le noie conseguenti ad un assassinio, pensò di rivolgersi, per ottenere la grazia, ad un potente più terreno, cioè a quel Ferdinando IV che aveva servito con molto zelo. “Perché – si chiese – non andargli a fargli visita? Sicuramente molti, a corte, si ricorderanno di me”. Detto, fatto. Ebbe inoltre l’originale idea di far preparare dai suoi massari una forma di cacio enorme, del diametro di un metro e alta almeno la metà: era il dono da recare al sovrano per propiziarsene il favore e ottenere la grazia.
Affrontò un viaggio molto lungo e faticoso per quei tempi. Si può immaginare la difficoltà nel trasportare indenne quella gigantesca forma di pecorino. All’arrivo nei pressi del palazzo reale, molti suoi ex compagni d’arme lo riconobbero e lo salutarono molto affettuosamente, con il tipico calore dei napoletani, sempre pronti ad apprezzare il folclore e le trovate geniali come quella messa in campo da Don Pietro per omaggiare il re. Avrà beneficiato anche loro del buon pecorino abruzzese.
Ebbene, la grazia la ottenne, ma Don.Pietrone, ammalatosi di colera, morì sulla via del ritorno, sull’altopiano delle Cinque Miglia, quando gli mancava poco per rimettere piede a Forca di Valle con la grazia reale in mano. Dove s’impara che non sempre basta avere…un santo in paradiso!