Ritrovare la bella parola nella scrittura: dalla letteratura al giornalismo
Pierfranco Bruni
L’uso della parola entra direttamente in un linguaggio che diventa veicolo di immagini, di significanti e significati. Come bisognerebbe entrare in contatto con la parola? In un tempo lontano era immediatamente diretta e quindi comunicante. In un tempo meno lontano si faceva ricorso, prima che la parola in sé comunicasse direttamente, ad un linguaggio intriso di metafore ma anche di retorica. Civiltà che restano come tradizione.
Oggi la parola è superata dal comportamento, dalla gestione del corpo, dai segni, dalla figura fisica che si mostra con il suo modello di vestimento. Penso alla comunicazione social-mediatica. Una volta, in uno dei tempi detti, c’era l’estetica non solo come forma filosofica- letteraria. Oggi invece insiste la «desestetica», ovvero sconfiggere l’uso della parola ricerca nella sua forma prima di essere scritta o pronunciata.
Viviamo in un linguaggio «coatto. Fatto ormai non ricerca o di pensiero ma di rottura con uno stile tradizionale. Di ciò chiaramente ne risente il giornalismo e tutta la pratica comunicativa parlata e scritta. Ci sono alcuni aspetti (non so dire problemi) di fondo. Il primo è lo studio parziale della grammatica vera e propria che consiste anche nello studio della storia della parola che è molto precaria. Il secondo riguarda uno «specifico» della comunicazione diretta di una parola in una collocazione vocabolirizzanti. Ovvero, una parola più volte ripetuta (dai rapper ai conferenzieri) viene inserita subito nei nuovi vocabolari.
Ciò è un male. Perché un fatto del genere lacera la storia della parola e del linguaggio. Si lasciano passare terminologia giornalistiche come forme di nuovi lingaggi. Per esempio la tanto abusata «far quadrare il cerchio» presenta una incapacità di parole significanti cedendo il passo ad un immaginario metaforico, allusivo, che esprime l’impossibile. Siamo dentro questa scia dolorante. Credo che il giornalismo potrebbe far ritornare alla estetica quella parola che crea il linguaggio di una comunicazione che resta come educatrice.
Il giornalismo, in questo senso, ha una pedagogia che tramanda fatti, eventi, storie attraverso l’uso di un vocabolario di parole. Quindi ha un compito precipuo in un quadro di interazione tra generazioni. In una società in transizione è naturale che si muta. Ma è naturale anche sostenere che noi siamo il linguaggio che parliamo e il giornalismo è nella misura e definizione di un suo vocabolario tra esercizio linguistico e «scenografia» di un impatto tra la cronaca e la tradizione.
Il bel parlare e lo scrivere connotano. Il coraggio di un giornalismo che non traduca la società e il reale, ma che abbia la forza di dare delle indicazioni precise proprio nell’uso della parola nel descrivere, nel rappresentare, nel raccontare. Dalla letteratura al giornalismo. Occorre ritrovare la bella parola.