Eleonora Duse non fu soltanto teatro. La divina che raccontò la Rosalia della Deledda e la Francesca da Rimini di Gabriele D’Annunzio di Pierfranco Bruni

Eleonora Duse non fu soltanto teatro. La divina  che raccontò la Rosalia della Deledda e la Francesca da Rimini di Gabriele D’Annunzio

di Pierfranco Bruni

Ritorno su Eleonora Duse. La tragica che dopo la Francesca da Rimini di Dante in D’Annunzio si veste, nel cinema, della Rosalia di Grazia Deledda con una chiusa che intrappola l’esistenza del pensiero di tutto il primo Novecento. Una tragica tra i personaggi drammatici. “Tutto è cenere: la vita, l’uomo, la morte, il destino…”. Così la Duse deleddiana.
Ma vado per ordine.
Eleonora Duse non fu soltanto il teatro. Fu soprattutto la «Divina» nella letteratura del primo Novecento che eredita quella fine dell’Ottocento che si esplica dopo Manzoni.
Eleonora Duse è «Francesca da Rimini» di Gabriele D’Annunzio al Teatro Costanzi di Roma in un adattamento del V Canto del Dante dell’Inferno. 
Dante e D’Annunzio per una Francesca da Rimini portata in teatro da una splendida Eleonora Duse. Eleonora si abita nel suo destino il tragico del canzoniere che sembra recitare la Laura di Petrarca nelle vesti di Francesca da Rimini. Francesca sarà nel suo viaggio e nella teatralità di amante dolorante. Penetra profondamente il personaggio dantesco riportato sulla scena dal suo Gabriele.
La Francesca da Rimini sarà una interpretazione affascinante ma anche con velature mistiche. Cerca, in Francesca, il proprio volto. La propria lacerazione si trasferisce sulla scena. Vede in Paolo il suo amante Gabriele. Recita come sul teatro ci fossero solo due personaggi. 1901. Gabriele la dedica completamente alla sua Eleonora.
È il 9 dicembre al Teatro Costanzi di Roma. D’Annunzio vede in Eleonora l’impasto tra Beatrice, Francesca ed Eloisa. Una sensualità allo specchio nel quale la Divina riflette non solo la sua fisicità ma sente soprattutto anche il tremore dell’anima. È come se si ripetessero le antiche frasi che dicono:
Lei: «Gli perdono di avermi sfruttata, rovinata, umiliata. Gli perdono tutto, perché ho amato».
Lui, alla notizia della morte di lei: «E’ morta quella che non meritai».
Un amore tutto carnale. La cui sensualità esplode in un lanciare di sguardi e di passione che Eleonora riesce a manifestare con una sorprendente e straordinaria interpretazione. Una superba interpretazione per una Divina che manifesta in teatro, direi pubblicamente, tutto il suo amore per Gabriele, che diventa Paolo. Una completa trasfigurazione in un immaginario che è manifestazione di una reale passione.
D’Annunzio diventa, così, Paolo e nel cuore di lei il fuoco divampa e si fa fiamma. Un trionfo e una morte in una Roma che ricorda quel V Canto di Dante in un infernale e invernale stagione in cui il tempo e la storia si intrecciano per tutta la città che sembra abbuiata dalle luci spente di una notte senza stelle e con un filo di falce di luna. La tragedia è composta in cinque atti in versi. Riccardo Zandonai successivamente la musicò nel 1914. A Torino si svolse la prima ed ebbe come ribalta il Teatro Regio.  La Francesca da Rimini segna il vero teatro della (di) poesia.
Paolo e Francesca: “Dammi la bocca. Ancora! Ancora! Ancora!”.
Siamo al colmo di una indefinibile passione. Prende il sopravvento su tutto. Come nel Canto di Dante anche in D’Annunzio l’amore non è più soltanto emozione. È oltre. Il fuoco immenso. Il fuoco che accende tutto e si aggrappa ad una carnalità morbosa.
Paolo:
“Francesca, io piango; io de’ mortali
Sono il più sventurato! Anche la pace
De’ lari miei non m’è concessa. Il core
Assai non era lacerato? assai
Non era il perder…. l’adorata donna?
Anche il fratello, anche la patria io perdo!”.
Francesca:
“Cagion mai non sarò ch’un fratel l’altro
Debba fuggir. Partir vogl’io; tu resta.
Uopo ha Lanciotto d’un amico”.
Paolo:
“Francesca,
Se tu m’abborri che mi cale? e il chiedi?
E l’odio tuo la mia vita non turba?
E questi tuoi detti funesti?… — Bella
Come un angel, che Dio crea nel più ardente
Suo trasporto d’amor…. cara ad ognuno….
Sposa felice… e osi parlar di morte?
A me s’aspetta, che per vani onori
Fui strascinato da mia patria lunge,
E perdei…. — Lasso! un genitor perdei.
Riabbracciarlo ognor sperava. Ei fatto
Non m’avrebbe infelice, ove il mio cuore
Discoperto gli avessi…. e colei data
M’avria…. colei, che per sempre ho perduta”.
Francesca:
“Cho vuoi tu dir? Della tua donna parli….
E senza lei si misero tu vivi?
Sì prepotente è nel tuo petto amore?
Unica fiamma esser non dee nel petto
Di valoroso cavaliero; amore.
Caro gli è il brando e la sua fama; egregi
Affetti son. Tu seguili; non fia
Che t’avvilisca amor”.
Ma questo è il grande amore inteso non solo di Paolo e Francesca, bensì di Gabriele e Eleonora. Si amarono con la tenerezza selvaggia e con la immensità fragile di un Dante e Beatrice. Un amore in versi che diventa un canto tra i Cantici del sublime e inebriante virgulto di un vento violento tra le imposte sul mare della Versilia e tra le strade di Toscana e di Roma.
Cosa resterà? Non un ricordo soltanto. La trasparenza del velo che cade dal capo nel momento in cui Gabriele sente l’ora dell’immortalità. Rosalia della Deledda cosa ha in comune con Francesca? Un discorso aperto che coinvolge le vite. L’estetica tragica di D’Annunzio. Il dramma  meta-verita di Deledda. Ma Francesca e Rosalia sono i personaggi della contraddizione di un Novecento secolo lungo. La Duse del D’Annunzio dantesco è il dramma di una recita in cui il dramma stesso si consuma in cenere.

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