Serena conduce operaclassica eco italiano

Comunicato Stampa

 

Torna in scena Madama Butterfly di Giacomo Puccini

Sul podio Dan Ettinger, regia di Ferzan Ozpetek

Dal 12 al 28 settembre 2023

 

 

Riprende con Madama Butterfly, la Stagione Lirica 22/23 del Teatro di San Carlo.

Martedì 12 settembre alle ore 20 si alzerà il sipario sul capolavoro di Giacomo Puccini nella versione registica firmata da Ferzan Ozpetek, con il direttore musicale Dan Ettinger alla guida di Orchestra e Coro del Lirico di Napoli.

Le scene sono di Sergio Tramonti, i costumi di Alessandro Lai e le luci di Pasquale Mari.

 

Doppio il cast per questa produzione del Massimo napoletano che vedrà in palcoscenico l’uno accanto all’altro nomi internazionali della lirica e riconosciuti talenti musicali del territorio: nel ruolo del Cio-Cio-San si alterneranno infatti Ailyn Perez (12, 17, 24 e 27 settembre) e Valeria Sepe (15, 20, 26, 28) e in quelli di Pinkerton Saimir Pirgu (12, 17, 24 e 27 settembre) e Vincenzo Costanzo (15, 20, 26, 28).

Marina Comparato sarà Suzuki mentre Ernesto Petti interpreterà Sharpless.

Paolo Antognetti sarà Goro, Ildo Song sarà Bonzo e Paolo Orecchia Yamadori. Completano il cast Laura Ulloa (Kate Pinkerton), Giuseppe Todisco (Commissario), Antonio De Lisio (Ufficiale del registro), Linda Airoldi (Mamma), Anna Paola De Angelis (Zia), Franca Iacovone (Cugina), Giacomo Mercaldo (Yakusidé).

 

La rilettura di Ozpetek dell’opera di Puccini ci porta nel Giappone degli anni ’50, con  una Cio-Cio-San forte e determinata: “Madama Butterfly per me non è affatto una vittima come viene sempre vista” afferma il regista nelle note del programma di sala – “per me la vittima è lui, Pinkerton, vittima di se stesso, un burattino. Lei è una donna determinata, è cosciente delle cose che fa, tutt’altro che fragile. Parla della sua casa americana, ha voglia di Occidente e cambia religione. Proprio per questo non è una vittima. Ha in mano il suo destino”.

 

Melodramma tra i più amati e popolari della storia della musica, Madama Butterfly è una tragedia giapponese in tre atti su libretto di Luigi Illica e Giuseppe Giacosa, dal racconto Madame Butterfly di John Luther Long e dal dramma Madame Butterfly di David Belasco.  Fu rappresentata per la prima volta a Milano, al Teatro alla Scala il 17 febbraio del 1904.

 

Otto le recite in cartellone, da martedì 12 settembre a fino a giovedì 28 settembre.

Prima della prima, martedì 12 settembre alle ore 18.30 al Café Opera, per la serie “Lezioni d’opera”, il musicologo Dinko Fabris parlerà di Madama Butterfly (ingresso libero).

 

OFFICINE SAN CARLO E MADAMA BUTTERFLY

Un progetto speciale lega Officine San Carlo e la messa in scena di Madama Butterfly nato dal recupero dalle reti abbandonate in mare nell’ottica della sostenibilità ambientale, cuore della mission di Officine San Carlo, progetto per il quale è stato creato un tappeto/arazzo tessuto con filato ECONYL: un nylon rigenerato ecosostenibile ricavato dal riciclo di reti da pesca dismesse o non usate. In questa edizione del capolavoro pucciniano infatti in palcoscenico ci sarà l’opera realizzata in un percorso di co-progettazione con gli studenti dell’Accademia di Belle Arti di Siracusa, MADE Program, coordinati dal docente di “Antropologia progettuale” Andrea Anastasio, ospite prestigioso di una masterclass che si è svolta proprio presso le Officine del San Carlo a Vigliena, nella quale l’artista e designer di fama internazionale ha raccontato tutto il progetto che ruota intorno alla sostenibilità e ai temi dell’economia circolare, esplorando le connessioni tra arte, artigianato artistico e design. L’opera, che sarà donata al polo artistico e formativo del Teatro a Vigliena, nell’ambito del piano di valorizzazione del patrimonio, prende vita dalla relazione feconda e virtuosa tra studenti e istituzioni, attivando così processi di partecipazione collaborativa e percorsi multidisciplinari, nei quali laboratori teatrali e impresa privata fanno convergere competenze, conoscenze, comunanza di visione e di intenti, al fine di intervenire in modo importante e costruttivo nel territorio, in particolar modo in un contesto difficile, come quello in cui si trovano le Officine del Teatro di San Carlo. L’attività svolta dagli studenti nell’ambito dell’iniziativa “Art Carpet”, curata da Made Program – Accademia di Belle Arti “Rosario Gagliardi” di Siracusa, in collaborazione con Officine San Carlo e ECONYL® (azienda specializzata nella realizzazione di tappeti e moquette sartoriali di altissima gamma), si caratterizza per l’approccio interdisciplinare e non mira solamente a produrre un artefatto di qualità, ma vuole approfondire i temi che lo sottendono: la storia del tappeto e dell’arazzo, il significato antropologico degli oggetti, il peso della sperimentazione, la tradizione locale (e, in genere, italiana), la riscoperta del fare a mano, la ricchezza dell’artigianalità. Musica, arte, design, drammaturgia, teatro diventano in questo modo soggetti attivi di un dialogo intessuto dalla scuola, in una visione articolata della comunità, permettendo alla cultura di nutrire la società e di renderla più sensibile e capace di affrontare le sfide del contemporaneo. In questo particolare caso, il fatto che l’azienda coinvolta utilizzi materiali ottenuti dal recupero e dal riciclo di reti gettate in mare, permette di sensibilizzare la comunità a una più profonda consapevolezza e alla comprensione della interrelazione che accomuna tutti.

 

Teatro di San Carlo
martedì 12 settembre 2023, ore 20:00

venerdì 15 settembre 2023, ore 20:00

domenica 17 settembre 2023, ore 17:00

mercoledì 20 settembre 2023, ore 18:00

domenica 24 settembre 2023, ore 17:00

martedì 26 settembre 2023, ore 20:00

mercoledì 27 settembre 2023, ore 18: 00

giovedì 28 settembre 2023, ore 18: 00

 

Giacomo Puccini

MADAMA BUTTERFLY

Melodramma in tre atti su libretto di Luigi Illica e Giuseppe Giacosa

 

Direttore | Dan Ettinger

Regia | Ferzan Ozpetek

Scene | Sergio Tramonti

Scenografo collaboratore | Sandra Viktoria Mueller

Costumi | Alessandro Lai

Luci | Pasquale Mari

 

Interpreti

Madama Butterfly | Ailyn Perez (12, 17, 24, 27) / Valeria Sepe (15, 20, 26, 28)

Pinkerton | Saimir Pirgu (12, 17, 24, 27) / Vincenzo Costanzo (15, 20, 26, 28)

Suzuki | Marina Comparato

Sharpless | Ernesto Petti

Goro | Paolo Antognetti

Bonzo | Ildo Song

Yamadori | Paolo Orecchia

Kate Pinkerton | Laura Ulloa #

Commissario | Giuseppe Todisco

Ufficiale del registro | Antonio De Lisio 

Mamma | Linda Airoldi 

Zia | Anna Paola De Angelis 

Cugina | Franca Iacovone 

Yakusidé | Giacomo Mercaldo ♮

 

♮ Artista del Coro # allievo Accademia Teatro di San Carlo

 

Orchestra e Coro del Teatro di San Carlo

Maestro aggiunto del Coro Vincenzo Caruso

 

Produzione del Teatro di San Carlo

 

Con gentile preghiera di pubblicazione e/o diffusione

Rossana Russo,

Responsabile della comunicazione creativa e strategica e relazioni con la Stampa

r.russo@teatrosancarlo.it

cell 3357431980

 

Giulia Romito,

Comunicazione e Stampa g.romito@teatrosancarlo.it 0817972301

Puccini e Madama Butterfly al San Carlo

a cura di Dinko Fabris

 

Nel corso di vent’anni la fortuna di Giacomo Puccini a Napoli cambiò notevolmente, seguendo l’irresistibile successo della carriera internazionale del compositore. Nella fantasia del giovane Puccini doveva rappresentare un luogo mitico, perché suo padre Michele, esponente di una lunga schiera famigliare di musicisti, vi aveva trascorso due anni di studio sotto la guida di Donizetti e Mercadante, prima di tornare a Lucca padrone delle regole della scuola napoletana di contrappunto. E tuttavia la prima opera composta da Giacomo Puccini, Le Villi, presentata al San Carlo come terza tappa dopo la prima di Milano nel 1885, fu una delusione inaspettata: l’opera fu travolta dai fischi, pur essendo stata interpretata magistralmente dai cantanti nella nuova e più facile versione in due atti. Ripartito subito per Milano, Puccini non sembrò tuttavia troppo turbato dall’insuccesso napoletano perché fu allora che iniziò il periodo artistico felice che nei successivi quindici anni avrebbe portato ai successi planetari di Manon Lescaut (1893), Bohème (1896) e Tosca nel 1900. Le ragioni dell’autentico muro eretto dal pubblico napoletano contro le novità del nord incarnate dal giovane toscano sono rintracciabili nell’orientamento dei giornali degli ultimi anni del secolo XIX, i cui collaboratori musicali raccoglievano le tendenze dei salotti buoni. Proprio in quegli anni cruciali si assistette ad un cambiamento di gusto epocale: dopo aver avversato non solo Wagner ma perfino l’ultimo Verdi, accusato di wagnerismo, si ebbe una rapida inversione di tendenza, che culminò con la rappresentazione trionfale di Walküre agli inizi del 1896. Fu recuperato Verdi ma non la “giovane scuola”, in cui venivano accomunati tutti insieme Puccini, Mascagni, Leoncavallo e Giordano, accusati di aver osato confrontarsi con quei modelli irraggiungibili. Il crescente gradimento del pubblico napoletano nei confronti di Puccini, riconosciuto sempre più come la più importante personalità musicale del suo tempo, si ebbe già con la rappresentazione di Manon Lescaut a Napoli nel 1894 e poi ormai conclamato con Bohème e Tosca. Il successo di quei capolavori preparò la strada per l’entusiastica accoglienza di Madama Butterfly, che giunse al San Carlo poco meno di due anni dopo la prima del 17 febbraio 1904 alla Scala.

La prima di Madama Butterfly al Teatro di San Carlo si ebbe dal 24 gennaio 1906 con 8 recite (nel cast, diretto da Ettore Panizza, si nota la presenza di Rina Giachetti, che aveva già interpretato Musetta nella prima napoletana di Bohème e oggi più nota per il coinvolgimento nella relazione della sorella Ada con Enrico Caruso) ma già alla fine dello stesso anno, dal 20 dicembre 1906, l’opera fu ripresa come inaugurazione della successiva Stagione del San Carlo con 12 recite (il direttore questa volta era il napoletano Leopoldo Mugnone, amico personale di Puccini). In seguito l’opera comincia a fidelizzarsi col pubblico napoletano con una presenza media di una volta ogni tre stagioni. In particolare torna nel 1910 e 1914, e, dopo le difficoltà della prima guerra mondiale, nel gennaio 1919;  poi regolarmente nel 1921, 1924, 1927 e 1930. In questo primo periodo si mettono in luce tra gli interpreti soprattutto due tenori, Aureliano Pertile e Tito Schipa. Negli anni ’30 sembra invece che l’opera pucciniana abbia aumentato la sua popolarità, tornando ben sei volte in un decennio: nel 1930-31, 1934-35 e 1938-39. Tra gli interpreti si evidenziano in questo periodo celebri soprani: Licia Albanese, Rosetta Pampanini e Iris Adami Corradetti, e tra i direttori Franco Capuana.

Com’è noto il Teatro San Carlo non chiuse neppure nel pieno della seconda guerra mondiale, per cui troviamo riprese di Madama Butterfly anche nel 1941, 1944 e 1945, con la direzione di Franco Patané, e tra i cantanti, la presenza di Toti Dal Monte. Dal 1946 al 1949, nel pieno delle attività riattivate grazie all’azione illuminata delle forze di occupazione alleate, Madama Butterfly fu rappresentata praticamente ogni anno e perfino in una recita estiva all’aperto nel luglio 1946 (giardini di Palazzo Reale) e fu tra i titoli proposti nella celebre tournée del San Carlo in Inghilterra, proposta nel settembre 1946 al Covent Garden di Londra. Una curiosità di questo decennio è la presenza nel ruolo della protagonista di una autentica cantante giapponese, il soprano Toshiko Hasegawa che svolse una intensa carriera in Italia dagli anni ’30. La fortuna di Madama Butterfly non accenna a calare nel successivo decennio, con riprese praticamente tutti gli anni con la sola eccezione del 1953 e per due volte anche proposte estive: nell’agosto 1958 e nel luglio 1959 all’Arena Flegrea. Le protagoniste vocali di questo decennio vedono astri di primaria grandezza nel ruolo del titolo: Leyla Gencer, Victoria de los Ángeles e Renata Scotto (entrambe queste ultime al loro debutto sancarliano nel 1957 e 1958, rispettivamente) e anche Renata Tebaldi (nell’estate 1958).

Dagli anni ’60 come per tutto il repertorio, si rafforza nettamente la presenza di registi importanti, con conseguente centralità di scene e costumi. Le rappresentazioni sono sempre numerose, praticamente tutti gli anni del decennio tranne il 1964-65. La grande protagonista di questo periodo è Raina Kabaivanska, presente in tre stagioni (oltre a una episodica presenza di Magda Olivero). Improvvisamente con gli anni ’70 si assiste ad un evidente calo di presenza di Madama Butterfly nei cartelloni del San Carlo, seguendo un trend nazionale: appena tre riprese dal 1970 al 1979 oltre a una presenza estiva al teatro romano di Benevento (luglio 1977) e la stessa scansione si ripete nei decenni successivi (1980, 1984, 1989; 1990, 1996) spesso con riprese dello stesso spettacolo a distanza di anni.

Nel nuovo millennio la prima ripresa è nel maggio 2003 e poi soltanto nell’estate del 2006 e del 2009 all’Arena Flegrea. Dopo di allora, la Puccini renaissance ha tuttavia gradualmente coinvolto anche Madama Butterfly, soprattutto per la scelta di direttori e registi. Si veda la produzione del San Carlo del 2014 diretta da Nicola Luisotti con la regia di Pippo Delbono, ripresa nel 2016 con la direzione di Pinchas Steinberg. Si giunge così alla prima produzione della Madama Butterfly con la regia di Ferzan Ozpetek nel maggio 2019, con la direzione di Gabriele Ferro e tra gli interpreti Eugenia Muraveva, Amarilli Nizza, Saimir Pirgu, Ivan Magrì e altri.

Guida all’ascolto

A cura di Michele Girardi

 

Madama Butterfly,

una tragedia in kimono

 

Quando ferveva il lavoro su Madama Butterfly, Puccini scrisse al librettista Luigi Illica (16 novembre 1902):

 

L’opera deve essere in due atti. Il primo tuo e l’altro il dramma di Belasco con tutti i suoi particolari. Assolutamente ne sono convinto e così l’opera d’arte verrà tale da fare una grande impressione. Niente entr’acte e arrivare alla fine tenendo inchiodato per un’ora e mezzo il pubblico! È enorme, ma è la vita dell’opera1.

 

Era un proposito radicale rispetto alle abitudini del pubblico italiano ed internazionale d’inizio secolo, anche considerando la rispettabile durata (quasi un’ora) del prim’atto (e visto che sia Cavalleria sia Pagliacci sono più brevi del second’atto di Butterfly). Si rammenti inoltre che atti unici di più vaste proporzioni come Salome ed Elektra di Richard Strauss erano di là da venire, mentre le immani strutture temporali dei drammi di Wagner richiedevano troppi sforzi d’allestimento (e di concentrazione) per entrare in un repertorio di diffusione capillare, specie in Italia.

Si rifletta inoltre sulle tendenze del teatro verista coevo: Puccini aveva comunque già immaginato, ma con fini particolari rispetto all’uso del tempo (come si vedrà), un intermezzo per accompagnare i pensieri di Cio‑Cio‑San durante la veglia nella seconda parte dell’opera, che si svolge in tempo reale dopo l’ampio prologo che la precede di tre anni. Creò così una struttura da atto unico che parrebbe echeggiare quella di Cavalleria rusticana (1890), poiché anche Mascagni utilizzò un intermezzo, affidato all’orchestra, per separare le due parti dell’opera e incanalare le tensioni dell’esposizione verso lo scioglimento. Non altrimenti si erano comportati Leoncavallo nei Pagliacci (1892), nominalmente in due atti, ma di fatto anch’essi in due parti (e in tempo reale), e Massenet nella Navarraise (1894: altri due atti fulminei, tre quarti d’ora in tutto)2. Come suona differente, tuttavia, dai titoli precedenti Butterfly, tragedia che vive largamente nella psicologia individuale della protagonista, dove il pubblico è obbligato a condividere il microcosmo soffocato e soffocante di lei fino allo scioglimento repentino. Un mondo da cui mancano i contrasti violenti e le passioni esteriori che agitano gli eroi del verismo.

La scelta di Puccini era una logica conseguenza della molla creativa che lo aveva spinto verso il nuovo soggetto, con partecipazione emotiva ancor più accentuata del consueto. Assistendo al dramma di David Belasco da cui Madama Butterfly avrebbe tratto origine, nel giugno del 1900 a Londra, egli, che non capiva l’inglese ma era in grado di metabolizzare al volo le situazioni teatrali di sicuro effetto, era stato rapito dall’efficacia drammatica dello scorcio della veglia di Cio‑Cio‑San in attesa di Pinkerton, già quasi un intermezzo “musicale” fatto di suoni concreti riverberati sulla scena. Si era facilmente convinto che, a dispetto di un palese modernismo (anche in termini di effetti) e dei costumi nipponici, aveva di fronte una tragedia potentissima, che seguiva gli schemi più sperimentati della tradizione occidentale. Cimentarsi con quel genere, per un artista già al massimo della popolarità, significava aprire un nuovo filone nel teatro musicale fin de siècle, che sarebbe stato poi alimentato da opere ispirate più o meno direttamente dai miti, da Elektra di Strauss (1909) a Fedra di Pizzetti (1915) e Edipo Re di Leoncavallo (1919), sino all’Œdipus Rex di Stravinskij (1927) e oltre.

Anteponendo all’azione del dramma un antefatto dettagliato (il prim’atto, per cui Illica era ricorso anche al romanzo di Pierre Loti Madame Chrysanthème, 1887), Puccini avrebbe ottenuto il necessario prologo, dove mettere a fuoco il conflitto che sta alla base della peripezia, lo scontro fra due civiltà, l’Est del Giappone e l’Ovest degli Stati Uniti, grazie a scene, costumi ed esotismo musicale. Che un simile disegno fosse nella sua mente lo suggerisce un’altra lettera a Illica, del 5 dicembre 1901, in cui prospetta un colore particolare per l’intermezzo:

 

Ti raccomando l’ultimo quadro e pensami a quell’intermezzo, per servirmi del coro: bisogna trovare qualcosa di buono. Voci misteriose a bocca chiusa (per esempio)3.

 

L’insistenza per impiegare il coro in un dramma dominato da un solo personaggio dovrebbe far pensare che Puccini abbia quantomeno intuito la sua valenza simbolica – a dispetto delle “convenienze” teatrali: i coristi rimangono dopo il prim’atto solo per questo scorcio – all’interno di uno schema tragico dalle fattezze classicheggianti. Ma le analogie con quanto accade all’eroe nell’Aiace di Sofocle suggeriscono che gl’intenti del compositore non fossero poi così casuali. Aiace Telamonio rientra in sé, resosi conto dello stato di aberrazione in cui era caduto, e si suicida gettandosi sulla spada per aver perduto l’onore. Prima di morire congeda la schiava Tecmessa, che non vuole rassegnarsi all’ineluttabile. Rivolge poi un addio al figlio Eurisace, a cui augura un futuro più sereno del suo:

 

Più felice del padre sii, bambino,

del resto uguale a lui. Non sarai vile.

Io, questo solo ho da invidiarti, ancora:

che non senti le angosce in cui vivi.

È nell’inconscio il dolce della vita,

prima che gioia tu conosca, o pena. […]

(a Tecmessa)

Ma tu questo bambino adesso toglimi […]4.

 

Anche Butterfly riacquista traumaticamente la propria lucidità alla sola vista della moglie americana di Pinkerton, e muore con onore per non aver potuto serbar vita con onore. Si suicida con la lama paterna, dopo aver congedato Suzuki imponendole di tener compagnia al figlioletto che gioca, abbandonato alle consuetudini della sua età e dunque incosciente, come il bimbo greco. Prima di tagliarsi la gola, infine, Cio‑Cio‑San eleva un addio disperato al figlio, spinto nella stanza dalla cameriera fedele per distrarla dal suo proposito, ed esprime un augurio vòlto a un futuro migliore per lui:

 

Perché tu possa andar,

di là del mare,

senza che ti rimorda, ai dì attiri,

il materno abbandono. […]

Va. Gioca, gioca.

 

Altre prove per accreditare la deliberata scelta tragica vengono da precise simmetrie musicali nel modo di iniziare e di finire i due atti, che disegnano con chiarezza un percorso drammatico in due parti. Il prim’atto si chiude dolcemente con un accordo che sospende la normale risoluzione alla tonica, ed evoca la precedente uscita in scena della fanciulla, simboleggiando la sua capitolazione senza riserve all’amore – il secondo viene sigillato da un accordo analogo, che giunge alla fine di una soluzione cadenzale a piena orchestra (il tema del suicidio), e solennizza in tono cerimoniale la conclusione dell’epilogo, tanto che il finale del primo atto ci tornerà in mente a posteriori, come coerente premessa a una tragedia che ha trovato compimento. Un ampio fugato a quattro parti, tra le più note espressioni tecnico‑formali in musica (e dunque identificabile come tale da qualsiasi spettatore), s’ode all’apertura del sipario, come per mettere in enfasi la funzionalità “occidentale” del “nido nuzïal” predisposto da Goro – ed è ancora con un fugato, ma a tre voci e di corto respiro, che inizia il second’atto, stabilendo, come nel caso dei finali, un rapporto di causa ed effetto tra i due momenti: la casetta si è trasformata in una prigione, e la musica, nel trascinarsi stancamente sugli stessi schemi, ci fa vivere il decorso temporale (“tre anni son passati”), smascherando l’illusorietà delle convinzioni di Butterfly.

In questo progetto gioca un ruolo importante la posizione del coro, a tre quinti del second’atto, che canta a bocca chiusa una dolce ninna‑nanna, cullando la protagonista nell’ultimo, amaro istante d’illusione, e al tempo stesso separa chiaramente la peripezia dalla catastrofe, che mena al luttuoso epilogo. Qui sembra che Butterfly abbia finalmente trovato la sintonia con un rarefatto paesaggio sonoro che vibra insieme a lei, voci remote che potrebbero essere misteriosi spiriti augurali, o fantasmi sereni: nei finali delle tragedie sovente il coro assiste l’eroe nel compimento del suo destino.

Cio‑Cio‑San, infine, soddisfa appieno le condizioni di un’eroina tragica: fanciulla quindicenne strappata all’età “dei giochi” (come recita il libretto), aderisce a un costume sociale del suo paese e del suo tempo, ma il matrimonio rappresenta ai suoi occhi il riscatto dalla povertà e dall’infamante professione della geisha (ed è questa la hamartìa, cioè l’atto della protagonista che mette in moto l’intero meccanismo). La statica condizione di moglie “americana” vive solo nella sua autoconvinzione (ed è l’ubris: l’eroina persevera nell’errore, nonostante gli avvertimenti ricevuti), per essere rapidamente demolita dal precipitare di eventi che la costringeranno ad accettare una delle leggi eterne di ogni tragedia: chi ha turbato l’ordine sociale, come lei stessa ha fatto innamorandosi di un uomo cui doveva solo procurare svago, deve ristabilirlo col proprio sacrificio.

 

* * *

 

Tòpoi riconosciuti del genere tragico, e gesti musicali precisamente coordinati ad essi, sostengono dunque la struttura della tragedia giapponese di Puccini, che purtroppo fu realizzata compiutamente soltanto nel debutto di Madama Butterfly alla Scala di Milano, il 17 febbraio 1904. Da quell’infausta serata, in cui il pubblico fischiò impietosamente (sobillato da una claque ostile al maggior compositore italiano del momento e al suo editore Ricordi) ebbe inizio un processo sistematico di revisione, che rende l’opera uno dei casi più complessi della filologia musicale di tutti i tempi. Osservarlo per sommi capi consentirà di capire meglio le costanti dell’idea drammaturgica pucciniana, e la forza con cui l’impianto di tragedia, nonostante i cambiamenti, resta alla base di questo capolavoro.

Purtroppo Puccini iniziò dalla macrostruttura, scindendo l’atto conclusivo in due parti5, ma non poteva eliminare il senso preciso degli elementi musicali che concorrono a determinare la prospettiva narrativa, né la coerenza con cui essa è condotta. Per ripristinare il taglio originale, tuttavia, basta solo che il sipario non cali dopo il coro a bocca chiusa, operazione priva di rischi ai tempi d’oggi, visto che lo spettatore attuale è abituato a tempi di attenzione assai più lunghi di quelli di allora.

Molti interventi servono a migliorare il sistema leitmovico dell’opera, e sono capitali visto che le pagine della partitura di Madama Butterfly segnano il temporaneo ritorno di Puccini alla “maniera” musicale di Manon Lescaut, la sua partitura più “wagneriana”. Ciò è principalmente dovuto alla tipologia dell’eroina femminile: anche se per cause diverse sia Manon sia Cio‑Cio‑San peccano di “superbia” ponendosi al di fuori delle norme delle loro società, inoltre la loro personalità domina le opere di cui sono protagoniste assolute dall’inizio alla fine, tanto che gli altri personaggi ruotano intorno a loro come satelliti. Per questo Puccini, dopo aver adottato sistemi diversi in Bohème e Tosca, tornò ad impiegare in prevalenza il motivo conduttore (Leitmotiv) come perno d’una tecnica di narrazione atta a dar conto del mondo che evolve intorno all’eroina – un mondo che, nel caso di Cio‑Cio‑San, è del tutto altèro rispetto alle sue convinzioni. Il Leitmotiv, in quanto melodia che da una forma originale perviene ad altre forme che da essa derivano (ma che differiscono per ritmo e per profilo intervallare e armonico), mette in risalto la fissità cocciuta di Butterfly, mentre attorno a lei tutto precipita.

Il tema della protagonista è anche il cardine di tutta l’opera, perché l’accompagna all’uscita in scena, fissandone l’immagine di donna innamorata nel suo poetico contesto naturale, e si riaffaccia in molteplici circostanze per caratterizzare il rapporto fra il sentimento della geisha e la realtà. Nella versione milanese la melodia che si staglia sopra l’accordo di tonica scendeva alla dominante – rimanendo dunque sul primo grado in secondo rivolto – per poi risalire alla sensibile poggiando su una settima di prima specie solo sull’ultimo quarto, mentre sin dalla ripresa bresciana la dissonanza compare già a metà della battuta (X):

Dal prolungamento della dissonanza risulta una maggior fragranza armonica, visto che la sequenza si ripete in progressione su sei gradi di una scala per toni interi al basso, dove l’accordo aumentato che la sigilla (Y) acquista piena rilevanza, assumendo la funzione di quinto grado della nuova tonalità. Non solo il motivo acquista più slancio, dunque, grazie al semplice ritocco, ma viene valorizzata la funzione dell’accordo aumentato (Y), una sorta di spezia armonica che dà impulso alla successiva ascesa verso il registro acuto di voci e coro, incarnando la crescita all’infinito dell’innamoramento della ragazza, chiusa dall’acuto finale emesso in pianissimo. Gli effetti di questa strategia attuata da Puccini saranno più evidenti quando Pinkerton intona la medesima sequenza nel duetto che chiude il prim’atto, ma per far prevalere il suo punto di vista; qui la triade aumentata (Y) viene rimpiazzata da accordi senza stravaganze armoniche: la voce poggia sopra una triade di tonica in primo rivolto e su una settima di dominante – “Stolta paura, l’amor non uccide, ma dà vita” -, variante che smaschera non solo la contraddittorietà tra gli intenti dei due (l’amore, infatti, ucciderà Cio‑Cio‑San), ma anche la banalità dell’uomo, espressa coi mezzi della musica. Solo nella sezione conclusiva del brano il motivo torna alla forma originale, segnando la resa incondizionata di lei (“Dolce notte, quante stelle”).

Alternando le due manifestazioni del tema Puccini pone una premessa indispensabile alla peripezia, che troverà ulteriori conferme nell’atto successivo. Un solo esempio: quando Butterfly, reagendo al pessimismo di Suzuki sul ritorno di Pinkerton, trae conforto e speranza dalle serrature che proteggono la casa, dove sta “dentro con gelosa custodia, la sua sposa che son io, Butterfly”, il Leitmotiv torna per due battute nella forma originale, ma di lì a poco ricompare in una versione cromatica e contorta, che accompagna lo scoppio di pianto di Suzuki (“Piangi, perché?”) e introduce la follia visionaria di “Un bel dì vedremo”. Dopo questo assolo la distanza fra la realtà e l’autoconvincimento di Cio‑Cio‑San non potrebbe essere maggiore, e questo nodo conflittuale viene reso tangibile grazie al procedimento di variazione tematica, e alla revisione che ne ha valorizzato gli effetti.

Gli altri cambiamenti che riguardano Cio‑Cio‑San sono più circoscritti ma altrettanto sostanziali, e sempre dettati dall’intento di intensificare la sua statura di eroina tragica. Nel primo grande assolo del second’atto, “Che tua madre”, i versi della prima milanese tratteggiavano una madre visionaria, che presenta lo sfortunato bimbo all’Imperatore, invece della madre ora nota in tutto il mondo che, al mestiere della geisha, preferisce il suicidio (“Questo mestier che al disonor porta! / Morta! Morta! Mai più danzar! / Piuttosto la mia vita vo’ troncar!”). Nella conclusione Puccini cambiò anche la melodia rendendola assai più drammatica, con ampi balzi verso l’acuto e ricadute al grave, e fu mosso dallo stesso intento anche nell’aria conclusiva (“Tu, tu, piccolo iddio!”), rettificando il profilo melodico da discendente ad ascendente: qui la voce ora svetta nei cieli del registro sopranile, realizzando una sorta di antitesi coi versi (“O a me, sceso dal trono / dall’alto Paradiso”).

Se i cambiamenti alla parte di Cio‑Cio‑San afferiscono al suo mondo privato come ambiente psicologico per lo sviluppo più coerente del “tragico”, gli altri interventi riguardano la cornice che la circonda. L’intento è quello di motivare l’evento fatale, mostrando le sue radici nell’ambiente. Puccini lo persegue inscenando anche musicalmente, oltre che visivamente, un’opposizione a beneficio dell’ascoltatore “occidentale”, tra quell’esotico che serve a caratterizzare il prologo, grazie alle melodie originali del Sol Levante da lui raccolte (e spesso inventate, inoltre, à la manière de), contrapposto all’inno americano, citato nell’assolo di Pinkerton (“Ovunque al mondo”), e riecheggiato nel second’atto, quando la geisha, quasi delirando, rivendica la sua “nazionalità” statunitense.

Il prim’atto, nella versione milanese, era intessuto di scenette di color locale (tagliate in seguito, e progressivamente, nel corso delle riprese), dove i giapponesi apparivano ridicoli talora sino al grottesco, offrendo a Pinkerton, da vero yankee privo di rispetto per le tradizioni di altri popoli, ripetute occasioni di schernirli con battute sprezzanti. Lo zio Yakusidé, che si presentava già ubriaco sin dall’inizio del banchetto nuziale, cantava un’aria da osteria (“All’ombra d’un Kekì / sul Nunki‑Nunko‑Yama”), sollecitato ad esibirsi con protervia da Pinkerton. Dal canto suo il tenente reagiva con poco garbo ai nomi poetici dei tre servi, apostrofandoli rozzamente “Muso primo, secondo, e muso terzo”. Non mancava infine l’occasione di esprimere tutto il suo spietato cinismo quando, nel finale, non si lasciava andare al rimpianto per la perduta felicità (l’aria “Addio, fiorito asil”, aggiunta per la ripresa bresciana del maggio 1904) e, dopo aver consegnato un po’ di denaro a Sharpless, se ne andava alla spicciolata borbottando:

 

Voi del figlio parlatele,

io non oso. Ho rimorso;

sono stordito! – Addio – mi passerà.

 

Se nella prima versione giapponesi e statunitensi erano posti quasi sullo stesso piano, e l’incomprensione tra le civiltà era pressoché reciproca, nella Butterfly attuale la presenza nipponica risulta assai più dignitosa, e la responsabilità del fraintendimento delle regole di una cultura diversa pesa maggiormente sugli americani: anche se Sharpless è un personaggio sostanzialmente positivo è pur sempre il console di una nazione imperialista, che approfitta delle circostanze per trarne privilegi, corrompendo per necessità i costumi locali. Dal canto suo Pinkerton guadagna sì un momento lirico che non aveva, ma l’aria aggiunta peggiora il suo ritratto, visto che l’unico canale di trasmissione del ricordo di un amore è di natura erotica. Cio‑Cio‑San si suicida anche perché, dopo aver voluto credere alla prospettiva di un riscatto dalla propria condizione, dovuto al matrimonio con un uomo di un’altra razza e altre usanze, scopre atrocemente di essere stata ingannata.

 

* * *

 

Guardando dunque alle diverse fasi del procedimento compositivo, protrattosi almeno sino alle recite parigine di Madama Butterfly iniziate nel dicembre 1906 (ma altri ripensamenti intervennero anche più in là, sino alle soglie degli anni Venti), si nota come Puccini abbia agito perfezionando l’idea di fondo, non intaccata dall’intervento sulla macrostruttura: mettere in scena una moderna “tragedia giapponese in due atti”, come recita la partitura.

Anche l’ultima modifica importante attesta l’intento del compositore, ed è frutto della sua collaborazione col regista Albert Carré, direttore dell’Opéra‑Comique a Parigi al momento della prima francese di Madama Butterfly. Prima di allora nel finale ultimo Kate, moglie americana di Pinkerton, entrava nella stanza dove si era consumata la vita di Butterfly, e dialogava a lungo con la piccola giapponese, chiedendole del bimbo e manifestando pietà per la sua sorte. A Parigi, invece, Carré e Puccini la tennero al di fuori della stanza, e dunque del mondo intimo della protagonista. Il musicista, inoltre, la privò di un’identità musicale sfoltendo la sua parte, e le lasciò solo qualche battuta per passare le altre a Sharpless.

Togliendo a Kate la parte attiva nella catastrofe, per assegnarle quella di fantasma delle private ossessioni di Cio‑Cio‑San, il compositore perfezionò uno dei momenti cruciali della sua tragedia giapponese, rendendo più immediata e sconvolgente la sua presa di coscienza: “Ah! è sua moglie!”, grida la protagonista, poi si ricompone e, “con voce calma”, dice “Tutto è morto per me! tutto è finito! ah!”. Ma soprattutto, lasciando al Console statunitense l’ingrato compito di sostenere le ragioni di quella donna altèra, alta e bionda, cioè all’unico oltre a Suzuki, nella costellazione dei personaggi, ad aver mostrato tratti di pietas autentica per Butterfly, Puccini scelse il solo occidentale atto a “giustiziare” la sua insana utopia.

Non si può fermare un meccanismo che ha nelle premesse le ragioni stesse del suo esito mortale, e perciò la piccola geisha può recuperare la propria dignità solo accettando le regole della propria civiltà. Il lascito è pessimista, ma la sintassi del tragico, qui applicata con intelligenza e passione, consente di cogliere la causa della hamartìa di Butterfly nella prevaricazione imperialista di una nazione su un’altra, tanto forte da creare illusioni fallaci. Il messaggio ha forse perso di attualità, ai tempi d’oggi?

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Note

 

1] Carteggi pucciniani, a cura di Eugenio Gara, Milano, Ricordi, 1958, n. 287, p. 225.

2] Puccini aveva già dato il suo contributo alla serie di intermezzi prodotti, sulla falsariga degli entr’actes di Carmen, nel teatro musicale fin de siècle, ma non aveva mai mancato di utilizzarli per colmare ellissi narrative, come accade nella versione riveduta della prima opera, Le Villi, ampliata da uno a due atti, o nell’atto III di Manon Lescaut, entrambi basati su una sorta di “programma” letterario.

3] Carteggi pucciniani cit., n. 263, p. 215.

4] Sofocle, Aiace, in Sofocle. Le tragedie, a cura di Giuseppina Lombardo Radice, Torino, Einaudi, pp. 485‑548: 509, vv. 620‑625, 654‑655. Ringrazio l’amico Guido Paduano per aver attratto la mia attenzione su questa possibile relazione.

5] È importante rilevare, comunque, che si tratta di parti e non di atti, come testimoniano tutte le numerose fonti edite (salvo uno spartito in francese, uscito in occasione delle recite parigine del dicembre 1906).

concerto da camera Beethoven – Brahms

dettaglio tappeto art carpet

foto conferenza stampa madama Butterfly, 8 Settembre 2023

 

 

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