A SCUOLA, SEMPRE
di Mario Setta
Nel racconto biblico contenuto nella Genesi, Dio mostra all’uomo le cose create “per vedere come le avrebbe chiamate”. Perché dare il nome era il segno della superiorità di Adamo sul creato. E l’uomo si realizza solo se pone in atto tutte le sue capacità intellettive. Dalla nascita alla morte. Un eterno scolaro.
Per questo l’argomento scuola è stato e continuerà ad essere tra i più dibattuti. Perché nella scuola sono riposte le speranze di ogni società. La formazione culturale si colloca tra i primi posti nella classifica dei valori. Perché “comprendere” significa in qualche modo appropriarsi delle cose. Questo, l’obiettivo della scuola.
In greco “skolé” da cui “skolàzein” significa stare in ozio, riposarsi, avere tempo di occuparsi di qualcosa per divertimento, ricreazione mentale. Nella condizione di assoluto riposo, nella contemplazione della realtà circostante si sviluppa la capacità di meravigliarsi (“thaumazein”) di fronte alla bellezza (o allo scempio) della natura. Così nacque e rinasce la filosofia, madre e figlia primogenita della scuola.
La scuola è cultura, apprendimento, vita, anche se l’istituzione ha cercato di appropriarsene. Forse per questo, Ivan Illich, anni fa ma sempre attuale, ha lanciato l’appello “descolarizzare la società”. Un’analisi, che pone in rilievo come la scuola istituzionale sia spesso a servizio della manipolazione della cultura. Già nella prefazione al libro “Descolarizzare la società” (1971), Illich scriveva: “All’attuale ricerca di nuovi imbuti didattici si deve sostituire quella del loro contrario istituzionale: trame, tessuti didattici che diano a ognuno maggiori possibilità di trasformare ogni momento della propria vita in un momento di apprendimento, di partecipazione e di interessamento”. In sintesi: l’apprendimento come essenza di vita e la vita come continuo apprendimento. Purtroppo, sembrano attuali le parole del poeta indiano Tagore: “La scuola mi appariva come una prigione dello spirito, buona solo a produrre pappagalli ammaestrati”.
Una scuola che voglia essere tale deve spalancare al mondo porte e finestre. Identificarsi e aprirsi alla società. Karl Popper, il filosofo della “società aperta”, ha esposto la dialettica tra due modelli di scuola: quella di Talete e quella di Pitagora. Le primissime scuole. La scuola di Talete era scuola aperta. Scuola di libertà. Talete, infatti, incoraggiava la critica nei suoi confronti, tanto che gli allievi potevano liberamente sostenere idee diverse dalle sue.
Nella scuola di Pitagora, invece, prevaleva l’insegnamento fondato sull’autorità indiscussa del maestro, venerato come un dio, discendente da Apollo, dotato di poteri taumaturgici. A lui si alludeva come all’autòs efe (ipse dixit) e chi pensava diversamente veniva dichiarato eretico, espulso, perfino assassinato. Come, si racconta, sia accaduto a Ippaso di Metaponto che, divulgando la scoperta degli incommensurabili (√2), minava tutta l’impalcatura dell’ arché di Pitagora.
In Italia, da decenni si parla e si cerca di realizzare l’autonomia della scuola. “Non dovrebbe esistere un governo della scuola, ma l’autogoverno delle scuole”, aveva dichiarato Sabino Cassese nella Conferenza Nazionale sulla scuola negli anni ’90 del secolo trascorso. Ma, con l’accentuazione della figura del preside-manager e la nascita del “dirigente scolastico”, responsabile di vari istituti, l’aspetto formativo ne ha risentito in modo penalizzante. Il preside-dirigente, spesso impreparato nelle materie di insegnamento, è diventato una trottola in corsa da un plesso scolastico all’altro, da una realtà all’altra. Nessun uomo e quindi nessun preside può essere talmente carismatico ed enciclopedico da risolvere ogni problema. E sono loro le vittime sacrificali di un simile sistema.
Purtroppo, la mancata approvazione della figura del preside elettivo “con funzioni di coordinamento e di animazione”, sottoposto ad un giudizio di controllo dagli organi collegiali, durante la discussione della legge-delega nel 1973, con la netta avversione da parte dei conservatori, ha privilegiato il percorso normativo unidirezionale a quello collegiale. Col risultato che la scuola appare sempre più come fabbrica che come comunità. E gli insegnanti più come dipendenti che come collaboratori. Può essere curioso ricordare che in una Circolare Ministeriale del 1923 è scritto: “Alla missione di preside ogni insegnante deve aspirare come a fastigio o coronamento della propria carriera didattica”. Non dovrebbe essere strano, quindi, in periodo di crisi e di volontariato, che docenti pensionati in condizioni di buona salute fisica e mentale, fossero chiamati a svolgere l’incarico gratuito e temporaneo di preside.
Oggi, invece, è in atto una ovattata conflittualità tra vertici scolastici. Una competizione tra istituti e poli scolastici sia in visibilità e sia per accaparramento di iscritti. Basta assistere ai vari “Open Day” che presentano i vari POF (Piano di Offerta Formativa). La scuola alla pari d’un’agenzia pubblicitaria.
Anche la cosiddetta riforma della “buona scuola” pur presentandosi in tono dimesso, aprendo e coinvolgendo il pubblico alla discussione: “Perché per fare la Buona scuola non basta solo un governo. Ci vuole un Paese intero”, non ha conseguito obiettivi positivi, ma ha spesso peggiorato la situazione. C’è bisogno di uno scossone morale e culturale. Una scuola che educhi e informi, che scopra e stimoli capacità e talenti. Compito che non spetta solo alla scuola, ma a tutta la società. Secondo l’invito del grande pedagogista Paulo Freire “Nessuno si libera da solo. Nessuno libera l’altro. Ci liberiamo insieme”.