Il 30 aprile del 1945 venivano trucidati a Milano Luisa Ferida e Osvaldo Valenti. Due attori del del cinema in bianco e nero
Pierfranco Bruni Era il 30 aprile del 1945. Una mitragliata. E in una Milano piovosa di notte vengono falciaditi l’attrice Luisa Ferida e l’attore Osvaldo Valenti. A guerra finita.
Il solito processo senza processo. Sommario. Sotto ordine di chi? La verità vera è necessaria per non consegnare , come spesso accade, la menzogna alla storia. Ma perché ritornare a parlare di Luisa Ferida trucidata dalla brigata Pasubio quando il fascismo non cera più e l’Italia completamente in mano agli antifascisti?
Scrivere un libro sulla uccisione terribile, atroce, di Luisa Ferida e Osvaldo Valenti, in un contesto come il nostro, significa essere indicato/additato, con il dito della mano sinistra, di essere un «fascista». Poco mi importa. Io scrivo da sempre ciò che ho vissuto, vivo e abitato nel corso degli anni grazie al mio vissuto tra radici di famiglia ed etica scavata nel corso degli anni.
Le tragedie restano e sono sempre tragedie. È come se avessi già vissuto questo cammino con un romanzo di decenni fa dedicato a Claretta Petacci, altra tragedia cui nessuno mai si è «giustificato» dell’orrore di piazzale Loreto dove uomini hanno appeso dai piedi, con la testa in giù, altri uomini e tra questi c’era Claretta Petacci denudata dagli indumenti intimi e poi massacrata, da morta ammazzata, a calci e sputi. I versi di Erza Pound restano.
Nel caso di Luisa Ferida e Osvaldo Valenti il dramma è un colpo di teatro dell’orrore ancora peggio. La guerra era finita. 30 aprile del 1945. Ancora oggi viene «nascosto» uffialmente il nome di chi diede l’ordine di falcidiare i due artisti del cinema italiano in una notte scura in un immaginario hegeliano. Ma perché ucciderli?
Ebbene, in «Luisa portava in una mano una scarpetta di lana», edito in una bella veste da Tabula Fati di Marco Solfanelli, di qualche anni fa, non ho voluto ricostruire. Non ho questa voglia e neppure una vis polemica in termini ideologici. Neppure oggi. Cerco di recuperare sensazioni e trascriverle con la sapienza degli anni, con le trame della storia e con una rilettura di alcuni documenti.
Mi si dirà che ciò è un voler rileggere la storia, riscriverla (forse?), decontestualizzare (probabile?). Nulla di questo perché si va oltre. Ho raccolto, semplicemente, ciò che, nel corso degli anni, mio padre mi ha lasciato in eredità: la parola, il pensare in autonomia e la coerenza guardando sempre ai fatti.
I fatti fanno la storia. Non le passioni ideologiche. Dico tutto ciò nel romanzo pubblicato. Romanzo perché? Probabilmente un diario diventato racconto. Ma sono discussioni letterarie che non mi sfiorano più, ovvero i generi letterari. La confessione mi attrae molto di più e la letteratura se non è confessione non è letteratura, è semplicemente cronaca o rappresentazione.
Dunque. Quando mi raccontava di Luisa Ferida, mio padre aveva negli occhi la malinconia. Attenzione, parlo di malinconia. Non di nostalgia. È come se dettasse. Più era intenso il suo linguaggio e maggiormente raccoglievo la sua paticità. Non era stato cosi con il libro su Claretta. Ma, in questo, Luisa rappresentava il sottosuolo di una emozione che non poteva lasciare indifferente. Luisa con Osvaldo erano stati il grande cinema italiano, quello che brillava e quello delle regie imponenti che hanno segnato il cinema degli anni Cinquanta. Ma era anche una donna che era stata uccisa portando in grembo suo figlio ancora di pochi mesi.
Perché portava in una mano una scarpetta di lana celeste/azzurra? Ovvero il titolo. Perché qualche anno prima aveva perso un figlio, Kim, dopo pochi giorni della nascita e la scarpetta era del bambino e Luisa la portava sempre con sé come una ricordanza reliquia di una madre nell’amore di madre. Kim. Figlio di Osvaldo e Luisa.
Il dolore di quegli anni non può essere cancellato. Non si cancella perché è umano, troppo umano, come ebbe a metaforizzare Cesare Pavese. Da dove nasce letterariamente e umanamente questo mio recente libro? Dagli intagli del pensiero, tra memoria e rimembranze, del precedente: «Quando mio padre leggeva Carolina Invernizio», edito nel 2021 sempre da Tabula Fati. Mio padre da ragazzo leggeva, a 11 anni, Carolina Invernizio e Goethe. Ma fu la Invernizio a dettare i segmenti di una generazione che portò a sublimare l’amore e il linguaggio del cuore.
Nel romanzo de 2021, però, ci sono altre tragedie come quelle delle Foibe e del sangue Istriano – dalmata. Già, il sangue dei padri o la terra dei padri come mi dice spesso la cara amica Franca De Santis, la quale, coraggiosamente, porta avanti un serio progetto su tali tematiche. Il coraggio. Ci vuole coraggio a usare la parola delle verità taciute.
I due libri li vivo intrecciati. Perché sono dettami tragici che comunque devono educarci a capire, a conoscere, a comprendere, ad usare gli strumenti di quel «sangue dei vinti» di cui ha parlato Giampaolo Pansa. Può esistere una storia condivisa? Credo di no. A Luisa Ferida, ingiustamente ammazzata e massacrata dal momento che è stata scagionata completamente da tutte le ingiuste accuse a lei rivolte anche se si ostina addirittura a cancellare una strada a lei dedicata, mi impegnerò a organizzare un convegno il prossimo anno in occasione dell’Ottantesimo anniversario dell’uccisione.
Certo, la storia si può cancellare come è stato fatto ma i fatti no. Non si cancellano. Restano e parlano. Tra la storia e i fatti ci sono le verità nascoste, taciute, mascherate. Ma ci sono. Luisa Ferida è stata uccisa da una Brigata partigiana a guerra finita. Questo è un fatto.
Il mio libro sottolinea ciò ma anche altro. Non mi riguarda la polemica, non mi interessa, come dicevo, la questione delle appartenenze. Le storie sono dentro la storia. Ma la tragedia di una donna, ripeto, assolta da tutto, sparata con la consapevolezza di dover essere atrocemente uccisa, a guerra finita, mi tocca nel profondo. La verità? Partiamo dallo strappare la menzogna per avere consapevolezza dell’uomo. Ho usato la storia per scrivere il libro? Certo, ma letta con molti documenti. Ma non resta soltanto tale perché dentro, come il precedente, ci sono delle vite. Luisa portava in una mano una scarpetta di lana per il figlio che non sarebbe mai nato. Sarebbe ora di riparlarne.
Perché si ritorna a parlare di Luisa? Una domanda su di lei vale una risposta. Chi potrà darla? Quella notte a Milano pioveva. Si sentirono gli spari. Perché ucciderli? Un prete sentì gli spari. Era don Afolfo Terzoli. Accorse, giunto solo per dare loro la benedizione. Parlarono i cartelli: «I partigiani della Pasubio hanno giustiziato Luisa Ferida». Un altro diceva che avevano giustiziato Osvaldo Valenti. Via Poliziano, Ippodrimo di San Siro. Milano. Quattro anni dopo, sempre il 30 aprile, mio padre e mia madre convolavano a nozze.