Siamo alla fine della ragione?  Da Sgalambro a Splenger nella decadenza di una civiltà tramontana

Pierfranco Bruni*

La fine della ragione non segna la morte del volere della ragione. Soltanto la morte vive in un apocalittico stato dell’impotenza. Impotenza della volontà e ragione senza rappresentazione sono due limiti e altrettante isole.
L’uomo è legato ancestralmente alla misantropica accettazione dell’isola. Ovvero del silenzio e della solitudine. Sia il silenzio che la solitudine sono mali che Baudelaire ci ha spiegato invitandoci al viaggio. Ma verso dove?
Si potrebbe cesellare che in tale  scettica ontologia potrebbe rientrare anche il Leopardi delle «operette», diario filosofico di un viandante che si ritrova in «zibaldone» del colloquio del viaggio permanente.
Manlio Sgalambro è un invito al viaggio tra le regali magie del tempo che si vive come «trattato» che specchia l’età e comprende che non può allontanarla. Non so e non vorrei sapere se in Sgalambro possa trionfare il suo Anatol o Siddharta o Aladino o Zarathustra o addirittura il venditore di tempo leopardiano.
Ernst Junger ci dice: «Cercando di sembrare ciò che non siamo, cessiamo di essere quel che siamo». Ma chi non siamo? Sarebbe meno complesso dire ciò che siamo. Aladino di Junger  vive questa risoluzione drammatica. Perché: «Uomini e popoli o si dimostrano all’altezza dei tempi o da essi vengono rovinati».
Una risoluzione drammatica, dunque. Come è tale il dubbio nel dubbio di Herman Hesse quando in un orientale  taciturno sottolinea: “Ogni uomo ha un suo compito nella vita, e non è mai quello che egli avrebbe voluto scegliersi».
Si ritorna a un antico vezzo. Se si ha la volontà di uscire dalla caverna non si ha neppure la forza. La vita è la decadenza dello spirito decadente. Non parlo per aforismi, ma per mancanza della ragione di essere tale. Quando si raggiunge un tale stato la fenomenologia è semplicemente un atto e non in atto. Come per dire niccianamente: «Da quando ho imparato a camminare mi piace correre».
Tutto dunque può essere un viaggio. O forse resta soltanto un inizio pensato e non diventato un indefinito invito al viaggio.
Si è forse poi distante dal Baudelaire? che recita:
«Mon enfant, ma sœur,
Songe à la douceur
D’aller là-bas vivre ensemble;
Aimer à loisir,
Aimer et mourir
Au pays qui te ressemble!
Les soleils mouillés
De ces ciels brouillés
Pour mon esprit ont les charmes
Si mystérieux
De tes traîtres yeux,
Brillant à travers leurs larmes».
Con Baudelaire, comunque, cambia lo specchio nel quale ognuno di noi si specchia e pur indossando la maschera che indossa è solo una persecuzione di ciò che si vorrebbe essere o rappresentare.
Essere e rappresentare sono due catastrofe. Sono il peggiore che si manifesta proprio nella fine della ragione. Impercettibile enigma che Sgalambro richiama con il pessimo mondo e, nonostante tutto, cerchiamo di nascondere sotto la terra della nostra impaziente rigoglio di destini.  Anche se ordine e bellezza sono il circuito in cui Manlio Sgalambro segna  la distruzione.
Perché? Come scrive: «Noi proveniamo dalla società, ma è allontanandocene che prendono forma la nostra distinzione e una non ignobile virtù». È questa la morte che ci coinvolge perfettamente. Noi siamo «trattato», ma siamo anche l’età che si inoltra in quanto: «…mai un uomo è interamente santo o interamente peccatore».
Ebbene? Anatol di Sgalambro è il personaggio che vive al di là del male, aldilà della disperazione e al di là del bene. Ma non c’è solo Nietzsche a fare da incipit in tutto questo. Sgalambro nasce con Gorgia nelle salite e discese della conoscenza. Quel Gorgia che ha insegnato a Sgalambro: «“Non bisogna credere a quanti esprimono opinioni, ma a quanti sanno; né bisogna considerare l’opinione più degna di fede della verità, ma, all’opposto, la verità più dell’opinione».(Gorgia)
Un «siculo» greco? Probabile anche se lo stesso Sgalambro non amava definirsi assolutamente ereditario della distesa  ereditaria «sicula», bensì di sottosuolo greco – orientale.
Quale è il punto nevralgico a mio avviso di tutto ciò? È la presenza di Oswald Spengler. Ovvero il concetto di tramonto dentro l’Occidente che va tramontare. Un paradosso? Per nulla.
Sgalambro incontra Spengler  proprio sulla via di questi concetti: «Di fronte a persone inferiori, con cui ci si mette a discutere per la più nera disperazione, è indifferente che si parli pro o contro qualcosa. A livello così basso la ‘verità’ non ha corso». Ed ancora fortemente intriso di Nietzsche nel momento in cui il dispersivo traguardo della accettazione o accondiscendenza si riempie di malinconica ironia tragica.
Spengler dirà ancora: «È disperante frequentare persone per cui si prova disprezzo: essere obbligati, per pura cortesia, ad ammirare cose la cui insignificanza fa compassione». Non incontriamo in ciò lo Sgalambro della empietà? Del «crepuscolo e notte»? Della misantropia? Del pensiero che marcisce? Dei «Capricci morali»? O del mondo che diventa pessimo dopo essere stato peggiore?  Direi proprio di sì.
C’è di più. C’è il tramonto di una civiltà che penetra il costato e il pensiero di Sgalambro in un inciso profondo sul quale Spengler fonda la sua filosofia e il suo essere. È proprio Spengler che fissa le coordinate affermando: «Una civiltà nasce nel punto in cui una grande anima si desta dallo stato della psichicità primordiale di una umanità eternamente giovane e si distacca, forma dall’informe, realtà limitata e peritura di fronte allo sconfinato e al perenne. Essa fiorisce sul suolo di un paesaggio esattamente delimitabile, al quale resta radicata come una pianta. Una civiltà muore quando la sua anima ha realizzato la somma delle sue possibilità sotto specie di popoli, lingue, forme di fede, arti Stati, scienze; essa allora si riconfonde con l’elemento animico primordiale».
Una civiltà nasce… Una civiltà muore… Portare a tramontare una civiltà è la necessità del filosofo Sgalambro che trova il suo incipit in Nietzsche e lo colloca in Spengler proprio nel momento in cui ha la consapevolezza che «È la vendetta della memoria contro il ricordo» (da » Variazioni e capricci morali». Il suo ricordare è in Gorgia.
Il suo definire è in Spengler perché è convinto, sempre in questo testo, che «noi non portiamo a spasso solo il nostro cadavere ma anche quello delle nostre idee». Fino a convincersi, sempre con Spengler, che «…il ‘tramonto del mondo antico’, lo abbiamo dinanzi agli occhi, mentre già oggi cominciamo a sentire in noi e intorno a noi i primi sintomi di un fenomeno del tutto simile quanto a decorso e a durata, il quale si manifesterà nei primi secoli del prossimo millennio, il ‘tramonto dell’Occidente'».
Il tramonto, dunque, è la morte della ragione. È il preventivo mondo pessimo di cui si cerca di perderlo di smarrirlo di misantrapizzarlo uscendo da ogni ragione possibile permettendo alla ‘civilizzazione antica» di erigersi come ricordo di un mondo gigante con la consapevolezza che «il tramonto è nella storia» (Spengler). Ciò deve insegnarci suggerisce Sgalambro a decadere, ovvero: «Si abbia il coraggio di decadere». Dunque, l’invito al viaggio non è altro un invito, in un tempo pessimo, a tramontare. Ritorna il suo Gorgia quando afferma: «L’essere è oscuro se privo di apparenza; l’apparenza è inconsistente se è priva di essere». Entrare in questo labirinto è liberarsi dal caos.

*Presidente Comitato nazionale celebrazioni del centenario della nascita di Manlio Sgalambro del Mic

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