Kafka a cento anni dalla scomparsa. In assurdo nel tragico 

Pierfranco Bruni 

«Ciò di cui abbiamo bisogno sono quei libri che ci perturbano profondamente come la morte di qualcuno che amiamo. Un libro deve essere un’ascia per rompere il mare di ghiaccio che è dentro di noi» (Lettera di Kafka a Oskar Pollak).

Il tempo di un libro è il tempo del pensiero.

Si racconta Kafka per decifrare un processo che vive dentro il castello pensando di fingere che tutto sua metamorfosi?Il 3 giugno di cento anni fa ci lasciava Franz Kafka. Lo scrittore che visse con i personaggi il senso della complicità tra l’assurdo e la dissolvenza. Lo scrittore che raccontò con un linguaggio meta enigmatico l’ironia del paradosso. 

I suoi romanzi sono l’incompiutezza della vita e non tanto o non solo dei destini che mettono in mostra quei personaggi che di diventano un costante io narrante. Come l’immaginario di un io che sembra abitare un sottosuolo e si consuma nel tragico. Come avvenne in Dostoevskij. Come avvenne nei protagonisti che campeggiano negli scritti di Camus. Kafka è lo scrittore di mezzo. Non dell’esistenzialismo o di un decadentismo primo Novecento. 

Di mezzo proprio perché si colloca antropologicamente tra i demoni di Dostoevskij e l’uomo della caduta di Camus. La disperazione si dissolve nel buio del bosco. Ma resta appunto l’assurdo. La vita con la morte è l’assurdo che entra nella vita come il gioco dolorante di Michelstaedr nell’altalena proprio di vita/morte. Un goriziano che si smarrisce tra la persuasione e la rettorica e che alla fine è il senso tragico che prevale. In Kafka non prevale il tragico ma la verità. La verità sta proprio nella morte che ci vuole morti e che però bisogna sconfiggerla con la vita anche se siamo eredi e continuatore del destino. 

Come appunto in Camus. In Camus è la rivolta nel senso della ribellione che lo salva. In Dostoevskij è il finale di Ivan nei Karamazov che lo solleva dal baratto. Si salva inventandosi nelle metamorfosi un nuovo personaggio. Personaggio uomo che si trasforma in scarafaggio. 

In Camus è il destino dell’uomo nuovo che traduce il suo sentirsi isola in percezione del camminare. Camus è salvato dal sole abbagliante del mediterraneo tanto che il personaggio muore nella sfera luccicante della luce solare. Il tempo non è traducibile. Non è spiegabile. Non è catturabile. 

Kafka fa morire K. con una pugnalata. Camus uccide con una pugnalata. I demoni sono un arcano. Diventano follia e dei. In Camus gli dei sono nel mito. In Kafka il mito non c’è. La follia si e definisce  proprio nell’assurdo. Uno scrittore che subisce la colpa e la condanna. In Camus non c’è il senso di colpa. C’è la colpa e la punizione. 

Essere straniero è una colpa. In Kafka la solitudine è una fuga di ritorno e le metafore sono roccia. Tutto si dipinge in un immaginario inconsolabile. Infatti non c’è alcuna consolazione perché non c’è alcun perdono. 

Ma la perdita sì. In entrambi si perde sempre. È la sconfitta della vita la cui unica eterna sconfitta resta la morte. Dunque.  Un centenario quello di Kafka che dovrebbe smussare tutti gli angoli e ritornare a discutere di vera letteratura. Kafka nei suoi diari annoterà: «Non si può esprimere ciò che si è proprio perché lo si è; non si può comunicare se non ciò che non siamo, la menzogna». Un assurdo nel tragico, come ho cercato di annotare nel mio libro la verità tragica edito da Solfanelli.  Un viaggio comunque nel mistero.

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