QUANDO GIOACCHINO VOLPE, NELLA PAGANICA NATIA, SI AFFACCIAVA ALLA FINESTRA – Ripubblicato il volumetto “Ritorno al paese”: alcune annotazioni sul grande storico

 

QUANDO GIOACCHINO VOLPE, NELLA PAGANICA NATIA, SI AFFACCIAVA ALLA FINESTRA

di Giuseppe Lalli

L’AQUILA – Il piccolo convegno, patrocinato dalla Fondazione Carispaq, che si è tenuto lunedì 18 febbraio all’Aquila presso l’Auditorium “Sericchi”, nel corso del quale è stata presentata la riedizione di un opuscolo dal titolo “Ritorno al paese”, uscito in prima edizione nel lontano 1958, nel quale Gioacchino Volpe, importante storico dei primi decenni del Novecento, raccoglieva un certo numero di articoli di memorie autobiografiche, ha avuto il non piccolo merito di riportare in auge la figura di un intellettuale del secolo scorso tanto significativo quanto dimenticato. A presentare il volumetto, che reca una prefazione di Valerio Valentini, sono intervenuti i professori Carlo De Matteis e Gaetano Quagliariello, già docenti dell’Università degli Studi dell’Aquila. Era presente alla manifestazione un pronipote del grande storico paganichese, che è intervenuto alla fine con garbate parole di saluto e di ringraziamento.

Gioacchino Volpe nacque a Paganica (al tempo comune autonomo, fino al 1927, ora frazione del comune dell’Aquila) il 16 febbraio 1876, insieme a numerosa prole, da Giacomo, farmacista e segretario comunale, e Bianca Mori, maestra elementare nativa di Siena. Nacque nel quartiere di Pietralata, nella stessa casa dove quindici anni prima era venuto alla luce Edoardo Scarfoglio, giornalista scrittore e critico teatrale, cugino di Gioacchino (era figlio di una sorella di Giacomo) e fondatore, insieme alla moglie Matilde Serao, del giornale napoletano “Il Mattino”. Chi l’avrebbe mai detto! In quel vicoletto appartato della provincia italiana, quanta cultura del Novecento si è data appuntamento…

Paganica, che prende il nome da un tempio che in epoca romana in quel territorio sorgeva (Jovi Paganico Sacrum), quando Volpe vi nacque era un antico e piuttosto fiorente borgo nei pressi dell’Aquila, di cui era stato uno dei castelli fondatori, uno di quei piccoli centri urbani un po’ dormienti situati nel ventre profondo di quella periferia italiana abituata a vivere ai margini della storia nazionale. Solo in due occasioni, che nel suo piccolo scritto autobiografico Volpe non manca di ricordare, in età contemporanea, parve scuotersi da questo torpore. Una prima volta, quando, sul finire del secolo XVIII, al tempo della calata napoleonica, nel vicino capoluogo abruzzese scoppiarono rivolte antifrancesi. Si trattava di reazioni in cui agiva, come sarebbe avvenuto più tardi con il brigantaggio meridionale post unitario, un confuso patriottismo, «conservatore ma non senza una sua venatura socialmente rivoluzionaria», che univa i ceti alti, il clero e le masse contadine «fedeli al Re, alla religione, al costume avito». Un altro sommovimento, di diverso segno, questa volta liberale, accadde negli anni tra il 1848 e il 1849, quando i venti rivoluzionari europei lambirono anche queste nostre contrade, segnando il destino di un altro Gioacchino Volpe, il nonno dello storico, medico, che, avendo partecipato ai moti, dovette subire una dura carcerazione.

Episodi, questi, che avevano ricollegato per un momento la piccola patria paganichese alla patria più grande, quella della cui vicenda lo storico si sarebbe dedicato lungo il corso della sua lunga ed operosa vita (vivrà novantacinque anni, e tornerà spesso alla sua casa natale di Pietralata). Dopo, il borgo sarebbe tornato ad essere un ridente paese della conca aquilana, la “Paganica delle cipolle”, come non esitò a scrivere sul registro di classe, accanto al nome dello studente Volpe, un professore di quel liceo aquilano che il giovane Gioacchino frequentò fino all’età di quattordici anni (con poco profitto, per la verità…storica), allorché si trasferì con la famiglia a Sant’Arcangelo di Romagna; ma anche la Paganica delle patate, dei fagioli, degli ovini, ben lontana, in ogni caso, dallo stereotipo mitologico delle Novelle della Pescara o della Figlia di Iorio di quell’Abruzzo ancestrale uscito dalla fervida penna di Gabriele D’Annunzio.

Le poche pagine del piccolo scritto “Ritorno al paese” sono un racconto fresco. Lo stile è assai scorrevole, la prosa è nitida, a tratti perfino luminosa, come quando rievoca, con accenti quasi epici, lo spettacolo, che lui si godeva dalla finestra di casa «delle interminabili greggi…ordinate in compagnie o battaglioni…esse sfilavano senza tregua, un giorno, due giorni. Chissà perché, quella marcia ordinata, silenziosa come di esercito mi incantava, mi inchiodava per ore ed ore…». Il racconto è istruttivo ad ogni riga: vi si apprendono tante cose. L’autore fissa sulla carta le sue memorie con uno stile non dissimile da quello dei suoi saggi di storia, vale a dire pulito e non pedante. Ciò che tuttavia in queste pagine autobiografiche manca è l’intensità del sentimento. Quasi del tutto assente è, poi, il pathos sociale. Traspare, nella descrizione dei rapporti con i compaesani, insieme al carezzevole ricordo di tante persone, una empatia piuttosto distaccata.

Gioacchino Volpe è reputato, per giudizio unanime, uno dei più grandi storici italiani del Novecento. Ebbe discepoli della levatura di un Federico Chabod (1901-1960), che mai rinnegò il debito culturale nei confronti dell’intellettuale paganichese. Basti ricordare, a sottolineare l’indubbio spessore della sua ricerca, ciò che lo storico Rosario Romeo (1924-1987) scrive a proposito del libro di Volpe L’Italia in cammino, saggio dove sono delineati temi che troveranno la loro matura espressione nella trilogia dedicata alla Storia dell’Italia moderna: «uno dei documenti più significativi del modo in cui l’Italia del Novecento ha preso coscienza del proprio passato». Con Volpe e con la sua attenzione realistica, che mostra fin dai suoi primi lavori, a fatti, istituzioni, uomini, a tutto ciò, insomma, che nella società è fenomeno vitale, è la stessa metodologia della ricerca storiografica che si rinnova.

Amico e collaboratore, nei primi anni del secolo scorso, di Benedetto Croce (1866-1952) nella rivista “La Critica’’ con articoli che il filosofo non esitava a definire “semplicemente stupendi”, finirono poi per rompere il loro rapporto per motivi politici, dopo l’avvento al potere di Mussolini. Volpe giudicò negativamente, quando uscì, la crociana Storia d’Italia dal 1871 al 1915, accusando il filosofo di essere prigioniero del passato (l’Italia liberale) e di aver «fatto l’elogio di quel passato, ora con l’accento del laudator temporis acti, ora con le argomentazioni dell’abile avvocato». Croce, riferendosi al coevo ricordato saggio dello storico paganichese, rispose che «l’Italia di Volpe cammina ma non riflette». Le ragioni del giudizio sul presente, che li vedeva su posizioni contrapposte, impediva all’uno di giudicare serenamente il lavoro dell’altro. Di certo il filosofo abruzzese-napoletano non perdonava a Volpe di aver firmato, nell’aprile del 1925, insieme a tanti altri uomini di cultura, quel Manifesto degli intellettuali fascisti contro il quale egli aveva reagito con un altro Manifesto, ed era stata la risposta della verità morale alla faziosa mistificazione.

Il lunghissimo impegno storiografico di Volpe spaziò dall’Italia di Carducci all’affermazione del Fascismo, fino alla catastrofe nazionale del 1943 e del difficile secondo dopoguerra, tragedia che egli immortala in pagine fino a qualche tempo fa inedite (“Lettere dall’Italia perduta’’, ed. Sellerio), e che ci mostrano un uomo ed un intellettuale deluso e disincantato. In una di queste lettere, parlando di una sua fugace visita a Paganica, la definisce, non senza un accento lirico, «sostanza della mia carne». Sulla sua figura e sulla sua opera di storico della nazione italiana ha gravato una ingenerosa damnatio memoriae, a motivo della sua convinta adesione al Fascismo, ciò che per molto tempo ha posto in second’ordine il valore intrinseco della sua produzione culturale. Sul rapporto di Gioacchino Volpe con il regime mussoliniano, bisogna tuttavia riconoscere che egli fu sì fedele, ma non sempre allineato, ciò che gli procurò non pochi sospetti da parte di qualche gerarca e dello stesso Mussolini.

Mi sia consentito, infine, un ricordo personale, per quel poco che può valere. Essendo nato anch’io in quella bella valle del Raiale che fu lo scenario dell’infanzia del grande storico, ho frequentato a Paganica la scuola media. Una mattina – dovevo essere in prima o in seconda media – decidemmo, tutti gli alunni, in segno di protesta (non ricordo più il motivo della protesta) di recarci alla caserma dei carabinieri per presentare le nostre lagnanze (nei nostri paesi, la caserma dei carabinieri era considerata prefettura e palazzo di giustizia). La caserma, in quegli anni, si trovava dall’altra parte del paese rispetto all’edificio scolastico, proprio in quel quartiere di Pietralata dove sorge tuttora la casa natale dello storico. Attraversammo in corteo tutto il paese e giungemmo fino alla piazzetta antistante quell’abitazione, e lì sostammo per un po’, in quella che pareva più una festa che una recriminazione. Subito un mio compagno di classe mi dette di gomito, segnalandomi la presenza di un signore dietro una finestra, e aggiungendo il nome, che pronunciò quasi con religioso rispetto: «Guarda – mi disse – quello è…Gioacchino Volpe». E siccome il nome non mi diceva niente, il ragazzo aggiunse che si trattava del famoso storico, e che abitava a Roma. Fu a questo punto che mi girai incuriosito, e vidi un uomo molto anziano che da dietro i vetri ci guardava mostrando un sembiante tra il severo e l’incuriosito. Emanava, da quella figura veneranda, un certo fascino, dal quale mi sentii catturato. Debbo confessare che sono sempre andato fiero di questo lontano ricordo d’infanzia.

Più tardi con l’età, lessi che lo storico, giunto al termine della sua vita, diceva di sé che era stato «uno studioso che di tanto in tanto si era affacciato alla finestra». Ma da una stessa finestra, quanti sguardi diversi si possono gettare… Quello di Gioacchino Volpe fu certamente uno sguardo intenso e profondo: il suo amore per l’Italia fu sincero, la sua lezione intellettuale resta assai interessante. I suoi libri di storia italiana andrebbero riletti con l’attenzione che meritano, insieme a quelli, beninteso, dell’altro menzionato nostro conterraneo d’Abruzzo, Benedetto Croce. Infine, proprio sul dovere di riscoprire l’opera del grande storico paganichese, trovo opportune le annotazioni che un altro paganichese, Goffredo Palmerini, scrisse nel 2006 in un lungo articolo su Gioacchino Volpe, commentando il citato volume postumo dello storico “Lettere all’Italia perduta”, nell’edizione curata da Giovanni Belardelli, Con le seguenti parole Palmerini concludeva il suo scritto.

«[…] In fondo Volpe ha influenzato come pochi altri un’epoca culturale, diverse generazioni e persino i suoi stessi oppositori. Ha lasciato una grande eredità intellettuale che non può essere dimenticata, anzi va adeguatamente rivalutata. Un’operazione, questa, iniziata già da alcuni anni dagli studiosi, che sta finalmente riconsiderando il grande storico abruzzese nell’interezza della sua dimensione. Non ho la pretesa d’essere utile a questo scopo, compito che spetta ad altre competenze scientifiche. E tuttavia, se mi è consentita una notazione critica, tutto questo è avvenuto ed avviene in Italia, ma non ancora in Abruzzo. Non all’Aquila, la sua città. Anche Gioacchino Volpe soggiace alla ventura di non essere profeta in patria. Ci si attende, ricorrendo 130 anni dalla nascita e 35 dalla morte del grande storico (Santarcangelo di Romagna, 1971), che il mondo culturale, accademico e le Istituzioni abruzzesi aprano una finestra in questa direzione. In questo campo la povertà d’iniziative è disarmante. Sarebbe quindi veramente apprezzabile un impegno del genere. Lo si deve a Gioacchino Volpe per la dimensione dell’uomo e dello studioso. Per rendere, per quanto tardivamente, il doveroso tributo ad uno dei più rilevanti pensatori italiani del secolo scorso. Un dovere civile, per contribuire a trarlo da un’ombra inconcepibile. Per chiarire gli elementi controversi. In definitiva per rendere compiutamente merito all’eminente storico di fronte alla generalità degli italiani, della sua statura, morale e culturale».

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