Pierfranco Bruni
Siamo giunti agli Ottant’anni di Marinetti. Il problema si pone su diversi campi e spazi della cultura. Provocazioni e manifesti per un’arte delle innovazioni. Ma è proprio vero? Gli scenari dovrebbero essere studiati partendo dal valore dell’arte nell’Italia di fine Ottocento e Novecento. Ma perché Marinetti non volle definitivamente separarsi da Leopardi?
Marinetti e Leopardi. Due modelli. Due racconti nella letteratura. A ottant’anni dalla scomparsa dell’inventore del Futurismo la discussione è tutta da approfondire non su schemi ma su testimonianze e documenti biografici.
Marinetti venne affascinato da Leopardi. Non è una contraddizione di forme o nelle forme di una letteratura che ha sempre intrecciato le esistenze.
Filippo Tommaso Marinetti (Alessandria d’Egitto, 22 dicembre 1876 – Bellagio, 2 dicembre 1944) è stato un attento conoscitore di Giacomo Leopardi (Recanati, 29 giugno 1798– Napoli, 14 giugno 1837). Non solo. Il padre dell’unica avanguardia nazionale che voleva uccidere il chiaro di luna amava profondamente la poesia di Leopardi, tanto che cercò di ricontestualizzare e riproporre il sentiero dell’infinito attraverso “l’elogio” dell’ottimismo.
Certo Marinetti non accettava la “logica” del pessimismo né in filosofia e letteratura e tanto meno nella vita.
Tra i massimi studiosi del Futurismo che hanno speso una vita per portare avanti quei processi culturali restano Francesco Grisi, nel campo della visione letteraria, e Luigi Tallarico nel campo della critica d’arte e delle conoscenze scientifiche sugli autori del Futurismo: i lori libri sono un documento certo.
Il Futurismo è rivoluzione ed è rivoluzionario. La guerra come igiene del mondo resta una metafora nella dinamicità del denso della velocità che sta oltre il tempo e lo spazio. Il concetto di velocità stessa trasforma il pensiero contemplante in azione folgorante o meglio fulminante.
Con tutto ciò il post classicismo di Leopardi non trovava un orizzonte e tanto meno un filo ad intreccio tra le ragnatele della trincea. Ungaretti capì la dinamica tra l’azione e la contemplazione. Legò la solitudine dello stare come uccelli su un albero o vivere l’insieme di una solitudine tra le cadute nella trincea della Prima guerra mondiale e il passero solitario tra le rimembranze e il nulla e il tutto di una sera nella quale si domanda luna che fai in ciel , vivendo la siepe e cercando l’infinito.
Scavare tra le ombre della siepe e catturare gli infiniti non è pessimismo. L’infinito è attraversare anche sul piano metafisico il pessimismo nel “passatismo” e dare un senso alla dinamicità del pensiero. L’infinito è essere negli infiniti. Ecco perché Ungaretti uscito dalla trincea rimodernizza Leopardi anche ponendolo oltre il modello del neo o post classicismo. Certamente non come lo inquadra Cardarelli nei moduli rondeschi che si contrappongono al Pascoli “stornellatore”.
Il dato centrale è che la poesia di un Novecento che rientra nel terreno delle matrici letterarie non può che porre Leopardi come incipit fondamentale. Lo farà lo stesso Pascoli che diventerà futurista e sarà riferimento futurista nel 1905. Lo farà, come testé sottolineato, Ungaretti con le sue lezioni sul Leopardi e con la sua adesione all’ideologia e al linguaggio futurista. Lo farà l’interventista Giovanni Papini che con “L’uomo finito” sancisce la rottura con un Croce che non sopportava Leopardi e che non ha mai capito il Futurismo. Lo farà il fiumano e notturno D’Annunzio che è leopardiano anche nei nodi decadenti e futuristi nelle manovre azioniste di Buccari e nei metalli de il “Notturno” .
Marinetti non si smentisce nel celebrare il Leopardi dell’ottimismo. Infatti lo considera “maestro di ottimismo”. Scrive un articolo su Leopardi dal titolo, appunto, “Leopardi, maestro d’ ottimismo” in occasione del centenario della morte. Una vera e propria celebrazione. Lo scritto porta la data del 1938 in un volume edito dal Comune di Recanati pubblicato in occasione della ricorrenza. Ma l’interesse di Marinetti per Leopardi risale a molto prima. Addirittura agli anni Dieci del Novecento come conferma Francesco Cangiulo nel volume del 1961: “Le serate futuriste”.
Un interesse, dunque, che sfiora la pubblicazione addirittura del Manifesto futurista del 1909. Ma nella rivista “Poesia” vero strumento di “propaganda” e manifestazioni futuriste non vengono mai aborrite le poetiche di un verseggiare con rimandi ad un classicismo leopardiano. Si pensi ai poeti stranieri e soprattutto ad alcune poesie, di poeti albanesi, scritte anche in francese.
Ma la dinamica del linguaggio dei futuristi oltre alla vastità della supremazia di un vocabolario estremamente rivoluzionario e metallico non è forse un recuperare la inquietudine della sera leopardiana che annuncia, dico annuncia, il dì di festa?
Marinetti riesce a cogliere il senso leopardiano e a farne un superamento del linguaggio del canto malinconico per viverlo in quell’infinito che è filosofia papiniana, ma anche a ricostruirlo come il personaggio che è il venditore di almanacchi. Venditore di futuro. Il nazionalista Marinetti recita, tra l’altro, il canto della Patria leopardiano che non ha romanticismo ma modernità.
Insomma Marinetti impone al Futurismo la intoccabilità di un Leopardi maestro di ottimismo nella luce del giorno nuovo e nell’alba risorgente oltre le ricordanze della siepe e gli sguardi languidi di Nerina. D’altronde l’ultimo poeta futurista che seguì Marinetti, Geppo Tedeschi, fu fortemente un poeta che usò il vocabolario leopardiano per vivere la sua paziente poesia nella inquietudine di un linguaggio malinconico. Quanta verità vibra nella letteratura. Uno dei libri che ha posto delle questioni non solo artistiche ma profondamente letterarie resta ancora «I Futuristi» di Francesco Grisi edito da Newton Compton nel 1989 in più edizioni mentre uno dei massimi studiosi di Marinetti e del Futurismo è senza ombra di dubbio Luigi Tallarico. Figure e studiosi dimenticati? Volutamente o involontariamente? Il Futurismo comunque resta l’unica avanguardia nazionale. Il Futurismo non è storia. È la grande visione delle Arti.