LA BELLEZZA DELL’INCARNAZIONE
L’eterno fascino del Natale
di Giuseppe Lalli
In principio era il Logos
e il Logos era presso Dio
e il Logos era Dio…
E il Logos si fece carne
e abitò fra noi.
(Giov. 1, 1.14)
Nelle nostre società occidentali il Natale è stato per secoli la festa religiosa più bella e attesa dell’anno, la festa in cui tutta la famiglia si raccoglieva attorno alla tavola e al focolare. Sullo sfondo, il presepe, che a partire da quello di Greccio, nel XII secolo, si diffuse in tutta l’Italia, e, più tardivamente, il nordico e “protestante” albero di Natale. Era la festa che univa le generazioni. I vecchi per tradizione e nostalgia, i bambini per la loro capacità di stupirsi di fronte a quella che appariva loro un’atmosfera di magia, erano i veri credenti del Natale. Anzi, i vecchi sembravano i veri protagonisti: il nordico Babbo Natale con la slitta e la più mediterranea Befana a cavallo di una scopa erano incaricati a portare i doni ai bambini.
Si poteva non essere religiosi, ma guai a parlare male del Natale, celebrato da poeti e scrittori in migliaia e migliaia di poesie e racconti (si pensi a Canto di Natale di Charles Dickens (1812 -1870), toccante, insuperata fiaba ambientata nell’Inghilterra del 1843, o al racconto di Fëdor Dostoevskij (1821–1861) di un povero bambino di non più di sei anni – immagine del Bambino Gesù – che, alla vigilia di Natale, si sveglia, affamato, in un gelido e umido scantinato di una grande città, forse Pietroburgo.
Così per i poeti. Ma per i filosofi?
I filosofi, per loro costume, diversamente da quanto creda la gente comune, non danno nulla per scontato, vanno alla ricerca del fondamento (l’archè), cercano di rintracciare una logica in ogni fenomeno analizzato, dando rigore analitico alla loro indagine e un ordine concettuale ai loro pensieri. Sotto questo aspetto, sono molto più vicini agli scienziati, ai quali a volte pretendono addirittura di insegnare il mestiere (il metodo), che ai letterati. Quando poi cedono la parola ai poeti, lo fanno per una consapevole scelta, dopo aver constatato che in un determinato argomento la ragione (il logos) ha esaurito tutte le sue risorse.
Quando il filosofo è credente cerca di rendere ragione, innanzitutto a sé stesso, della sua fede, si sforza cioè di riconquistare ogni giorno, con il sudore della fronte, la verità che gli è stata rivelata, ma non è disposto a confondere il miracolo con il ragionamento, la trascendenza con l’immanenza, ancorché sia incline a scorgere nel naturale le radici del soprannaturale. I filosofi cercano il senso, cioè il sale della vita, in ogni avvenimento, piccolo o grande che sia. Che cosa ha da dire il Natale ai filosofi? È curioso constatare che sul Natale più di un filosofo moderno, ancorché non credente, si sia lasciato andare, si sia…sciolto.
Accade allora che Arthur Schopenauer (1788–1860), che teorizza, al pari di Giacomo Leopardi (1798–1837), il “pessimismo cosmico” (è sua la frase “La vita è un pendolo che oscilla tra la noia e il dolore”), nella sua ultima opera, una raccolta di saggi del 1851, scriva queste parole: Colui che ha una grande ricchezza in sé stesso è come una stanza pronta per una festa di Natale, luminosa, calda e gaia in mezzo alla neve e al ghiaccio della notte di dicembre. (Parerga e Paralipomena, Ed. Adelphi). Frase davvero luminosa, dove è facile leggere come il filosofo tedesco, che immagineremmo armarsi contro il Natale cristiano con il bastone della demistificazione, scorga nel mistero dell’incarnazione, nel Dio che si fa uomo, la pienezza della vita e la massima espressione di umanità.
E che dire del profeta della morte di Dio? Di quel Friedrich Nietzsche (1844–1900) dal quale ci si aspetterebbe una dissacrante definizione della festa di questa festa della cristianità? Sorprendentemente, del caustico pensatore, che non esita a scrivere che il cristianesimo è la più grande menzogna della storia dell’umanità, apprendiamo dal suo epistolario che era sinceramente nostalgico dell’atmosfera magica del Natale della sua infanzia, passato in compagnia dei suoi cari. In una lettera del 1880 indirizzata alla madre e alla sorella ricorda come il 25 dicembre “in tutte le case si accende l’albero e si distribuiscono i doni di Natale”. Nel Natale 1885 è a Nizza, solo. Nell’aprire il pacco inviatogli dai famigliari, l’impazienza di scartare i doni e la sua vista precaria gli giocano un brutto scherzo: sgusciano via i soldi che gli ha mandato la madre. “Perdonate il vostro animale cieco”, scrive a sua sorella, ed esprime subito dopo la speranza che i soldi persi li abbia raccolti “una povera vecchietta che abbia così trovato per strada il suo Gesù bambino’’. (Epistolario1880-1884 e 1885-1889, Ed. Adelphi)
Stupisce anche l’atteggiamento di un altro insospettabile, quel Jean Paul Sartre (1905–1980) che non esiterà più tardi a presentare la sua filosofia come un umanesimo ateo, ma che trovandosi nel 1940 a riflettere sul significato del Natale mentre era detenuto nel lager nazista di Treviri, nel racconto Bariona o il figlio del tuono, scrive sulla maternità di Maria le seguenti commoventi parole, degne di un mistico cristiano: Cristo è suo figlio, carne della sua carne e frutto delle sue viscere. Ella lo ha portato per nove mesi e gli darà il seno e il suo latte diventerà il sangue di Dio. […] Ella sente che Cristo è suo figlio, il suo piccino, ma anche che è Dio. Lo guarda e pensa: Questo Dio è mio figlio, questa carne divina è la mia carne. Egli è fatto di me, ha i miei occhi e questa boccuccia ha la forma della mia. È Dio, ma mi assomiglia! Nessuna donna ha avuto in questo modo il suo Dio per lei sola. Un Dio piccolo che si può prendere tra le braccia e coprire di baci, un Dio tutto caldo che sorride e respira, un Dio che si può baciare. (Ed. C. Marinotti, 2003)
Più articolato, e più ricco di calore mediterraneo, si presenta il discorso per Benedetto Croce (1866–1952), che come tanti rampolli dell’alta borghesia frequentò il Collegio dei Barnabiti a Napoli verso la fine dell’Ottocento. Fu lambito, negli anni della sua prima giovinezza, da piccoli propositi di vita devota, forse un leggero soffio di misticismo a cui non dovette essere estraneo il fascino delle toccanti melodie di Sant’Alfonso Maria de’ Liguori (1696–1787), che sicuramente assaporò: un refolo, niente di più, che non divenne mai vento, destinato tuttavia a riaffiorare qua e là nella sua opera matura, a cui non fa difetto, insieme allo slancio poetico, un senso religioso della vita, ancorché declinato in una visione laica, come oggi si dice. Sappiamo in ogni caso che non dimenticò mai quei ritmi ingenui ma pieni di sentimento, e all’approssimarsi del Natale, complice l’aria odorosa di mandarini e torroni, li rievocava con piacere ai suoi amici e discepoli.
Amava particolarmente i seguenti versi di Quanno nascette Ninno (che molti studiosi nel passato identificavano nella versione popolare dell’alfonsiana e più celebre Tu scendi dalle stelle), che canticchiava assai volentieri: “Ninno mio sapuretiello, Rappusciello d’uva si tu!”, versi la cui traduzione in italiano (“Bimbo mio (così) saporito, grappoletto d’uva sei tu!”) non restituisce appieno la spontanea freschezza d’immagine e la musicalità che il dialetto esprime, e che faceva vibrare l’anima di Croce fino a fargli sentire di trovarsi di fronte ad un gioiello letterario di rara purezza. (O. Gregorio, sant’Alfonso M. de’ Liguori visto da Benedetto Croce, saggio reperito su Internet, p. 2a). È forse in queste commosse reminiscenze che va ricercata la genesi delle mature conquiste del suo pensiero: quello secondo cui il cristianesimo è da considerarsi la rivoluzione più grande che l’umanità abbia conosciuto, perché rivoluzione dell’amore gratuito.
Natale! Per Edith Stein (1891–1942), la filosofa ebrea tedesca fattasi suora carmelitana con il nome di Teresa Benedetta della Croce e morta ad Auschwitz nell’agosto 1942, la sola parola basta per evocare un universo di tenerezza. Così si apre Il mistero del Natale, un suo piccolo saggio del 1931: Quando i giorni diventano via via più corti, quando nel corso di un inverno normale, cadono i primi fiocchi di neve, timidi e sommessi si fanno strada i primi pensieri del Natale. Questa semplice parola emana un fascino misterioso, cui ben difficilmente un cuore può sottrarsi. Anche coloro che professano un’altra fede e i non credenti, cui l’antico racconto del Bambino di Betlemme non dice alcunché, preparano la festa e cercano di irradiare qua e là un raggio di gioia. Già settimane e mesi prima un flusso di amore inonda tutta la terra. Una festa dell’amore e della gioia, questa è la stella verso cui tutti accorrono nei primi mesi invernali. (Ed. Dehoniane Bologna, 2017)
Questa convergenza di filosofi di diversa ispirazione ideale sul valore evocativo del Natale non deve meravigliare: la filosofia, il cui significato etimologico è “amore della sapienza”, muove, al pari della poesia, da un sentimento di stupore, a cui segue lo sforzo di spiegare cose sempre più complesse, come ci ricordano sia Platone (428/427–347) che il suo discepolo Aristotele (384/383–322). Viviamo in un’epoca dominata dalla secolarizzazione, caratterizzata cioè dalla perdita del senso del sacro: la fede dei nostri avi non ispira più i nostri comportamenti. Viviamo nel tempo in cui il trionfo della tecnica ha prodotto il “disincanto del mondo”, come scriveva Max Weber (1864–1920): una gabbia di ferro che ha intrappolato l’uomo moderno e lo ha separato dalla sua anima.
E pensare che la magia, il mito, la favola, la poesia, tutto ciò che appartiene all’infanzia del mondo e che Giambattista Vico (1668–1744) – che visse, studiò e meditò immerso nei vicoli di quella Napoli dei primi decenni del ‘700 che inventò la tombola, la smorfia e il presepe artistico – paragona, nella sua grandiosa Scienza Nuova, all’infanzia della vita umana: una forma di conoscenza non meno profonda e penetrante di quella che verrà dopo con la ragione speculativa e sperimentale.
Sapienza, amore, stupore si ritrovano tutte nella notte di Natale: dagli angeli che recano la bella notizia ai pastori che l’accolgono con grande gioia, ai Magi, sapienti venuti da lontano per contemplare la verità a lungo cercata. Il fascino del Natale è l’essenza stessa del Cristianesimo: un Dio che si fa uomo per un supremo atto d’amore, ciò che mette d’accordo fede e ragione, poesia e filosofia. Storia sacra e storia profana si contaminano: il Dio dei filosofi e il Dio di Gesù Cristo, sul crocevia del Natale, sembrano incontrarsi.
Non c’è alcun altra festa che evoca la bellezza come il Natale. Dietro tanta bellezza però già s’intravede, come intravedeva Edith Stein, l’ombra della croce: è questa doppia immagine che deve aver contemplato Dostoevskij quando metteva sulla bocca del protagonista di un suo romanzo la celebre frase “La bellezza salverà il mondo”. C’è ragione di credere che Dio sarebbe venuto a visitare la sua creatura, fatta poco meno di un angelo ma in qualche modo, avendogli dato un corpo, più completa, anche se non avesse avuto bisogno di redimerla dal peccato, giacché la bellezza è l’essenza stessa di Dio.
Quanto è distante questa storia ideale, eterna, – che lo scintillìo degli alberi addobbati e l’incanto dei presepi ancora ci ricordano – dalla storia concreta, con i suoi progressi e regressi, con le epoche di barbarie e di civiltà che si alternano, sia pure ad un livello più alto: da una parte, su un piano superiore, il progetto che Dio ha per il mondo, dall’altra, su un piano inferiore, la storia degli uomini in questa “aiuola che ci fa tanto feroci”. Dopo aver strappato Dio dalle nostre esistenze, dobbiamo rimettere il Bambinello al posto che gli spetta, cioè in fondo al nostro cuore e nel cuore delle nostre società. L’aveva ben compresa, questa distanza, un caustico e originale poeta del secolo scorso, pessimista come Schopenauer, ma che recava nella sua sporta ancora un po’ di fede e di speranza. Mette in bocca al Bambino Gesù queste parole:
“Ve ringrazio de core, brava gente,
pé ‘sti presepi che me preparate,
ma che li fate a fa? Si poi v’odiate,
si de st’amore nun capite gnente…
Pé st’amore sò nato e ce sò morto,
da secoli lo spargo dalla croce,
ma la parola mia pare na voce
sperduta ner deserto, senza ascolto.
La gente fa er presepe e nun me sente;
cerca sempre de fallo più sfarzoso,
però cià er core freddo e indifferente
e nun capisce che senza l’amore
è cianfresaja che nun cià valore. ’’
(Er presepe, Carlo Alberto Salustri (Trilussa) – 1881/1950).