“L’arte deve confortare il disturbato e disturbare il comodo.” – César A. Cruz
Le recenti candidature ai David di Donatello 2025 confermano un’ormai consolidata tradizione del nostro cinema: il predominio dei «soliti noti», dei registi affermati, delle produzioni con nomi pesanti dietro e davanti alla macchina da presa. Un meccanismo che si autoalimenta e si perpetua, confermando ancora una volta che il coraggio di innovare e di dare spazio a voci fresche, autentiche e indipendenti sembra essere un lontano ricordo. Nelle nomination 2025 spiccano titoli come Parthenope di Paolo Sorrentino e Berlinguer – La grande ambizione di Andrea Segre, entrambi con un numero impressionante di nomination, rispettivamente 15 e 12. Non che siano film senza valore: entrambi sono produzioni di grande qualità e sono i più adatti a ricevere il riconoscimento di una giuria “sicura”. Ma sono anche i film che, in un modo o nell’altro, sono parte di un sistema che ha ormai poca voglia di rischiare.
A ben vedere, è la stessa logica che ha dominato anche gli ultimi Oscar. Non c’è dubbio che si siano premiati alcuni film validi, ma quando guardiamo al panorama complessivo, ci si rende conto che il rischio e la sperimentazione sono ormai concetti marginali. In un contesto globale che evolve a una velocità impressionante, la statuetta più ambita del mondo continua a premiare opere come Oppenheimer di Christopher Nolan, un film che pur essendo notevole, si adatta perfettamente agli schemi dell’industria e non sfida mai veramente i limiti del mainstream. Si parla di coraggio, di inclusività, ma alla fine si premiano film che fanno parte di un processo produttivo collaudato, destinato a garantire ritorni economici. La stessa tendenza si riflette ai David, dove, come per gli Oscar, la logica di premiare ciò che è già conosciuto vince su quella di premiare l’emergere di nuovi talenti e nuovi linguaggi.
Tutto questo ci porta a una riflessione amara: il cinema italiano ha smesso di essere un faro di creatività, di innovazione e di critica sociale. Film come La Terra dei Figli di Claudio Cupellini, che pur con una storia potente e una proposta narrativa forte, sono stati praticamente ignorati dai grandi premi, sono l’esempio di un talento che non trova il suo spazio nelle grandi cerimonie, in quanto troppo lontano dalle dinamiche tradizionali delle case di produzione e delle logiche consolidate.
Ma non si tratta solo di un problema che riguarda i David di Donatello. La situazione è ugualmente deludente nei grandi festival internazionali, dove le scelte artistiche sembrano troppo spesso determinate dalle leggi del mercato e delle pubbliche relazioni piuttosto che dalla ricerca di nuovi linguaggi cinematografici. Il Festival di Venezia, che dovrebbe essere il simbolo del cinema d’autore, si è trasformato, negli ultimi anni, in una passerella mediatica, un tappeto rosso su cui più che gli autori, brillano le celebrità e i loro abiti firmati. La selezione dei film è spesso condizionata da logiche di visibilità piuttosto che da un’autentica ricerca estetica e sociale.
Il caso di Siccità di Paolo Virzì, un film che ha suscitato reazioni contrastanti, è emblematico di questa dinamica: il film, pur trattando temi sociali rilevanti, è stato paradossalmente marginalizzato dalla giuria ufficiale, con una ricezione più tiepida di quella che avrebbe meritato per la sua audacia narrativa. È come se il festival stesso non fosse pronto a premiare ciò che può turbare veramente. Una tendenza che si ripete al Festival di Roma, che, nonostante gli sforzi per crescere, rimane una manifestazione che fatica a guadagnarsi una vera e propria identità culturale. Anno dopo anno, il Festival capitolino continua a scegliere più film già visti altrove, rinunciando a scoprire quelle voci davvero nuove che potrebbero ridefinire il panorama cinematografico.
A Torino, il Festival che un tempo rappresentava una vera e propria vetrina di cinema d’autore e di ricerca, ora sembra aver perso la propria spinta innovativa. Se un tempo ci si aspettava di scoprire nuovi registi, nuove storie, oggi Torino sembra più un luogo dove si celebra un cinema che ha paura di sporcarsi le mani con il rischio, il conflitto, la novità. Anche la selezione di film, negli ultimi anni, ha mostrato una certa stanchezza, con una programmazione che risulta fiacca e poco incisiva.
Anche i premi più in voga negli Stati Uniti, come i Golden Globe, appaiono più disorientati che mai. Dopo lo scandalo che ha travolto l’organizzazione e la ristrutturazione in corso, la cerimonia di premiazione sembra più in cerca di una propria identità che davvero intenta a celebrare il meglio della produzione cinematografica mondiale. Più che un’ondata di novità, i Golden Globe sono divenuti il riflesso della crisi di un sistema che non sa più come ritrovare il coraggio di scommettere su qualcosa di diverso. È il riflesso di un cinema che sembra sempre più omogeneo, sempre più standardizzato, senza spunti di originalità.
In questo panorama, solo il Festival di Montreal emerge come una realtà vitale e coraggiosa. Questo festival, lontano dalle luci dei grandi riflettori e dai meccanismi industriali, ha dimostrato negli anni di saper premiare non solo il talento consolidato ma anche registi e opere che sfidano le convenzioni e pongono domande scomode. Film come The Whale di Darren Aronofsky, premiato per la sua intensissima interpretazione di Brendan Fraser, ma anche per la sua proposta tanto provocatoria quanto autentica, sono esemplari di come il cinema possa ancora parlare di temi universali senza rinunciare a una visione personale e rischiosa.
Alla luce di tutto questo, i David di Donatello del 2025 sembrano più che mai il simbolo di un sistema che non ha il coraggio di rinnovarsi. I premi sono dominati dalla routine, dalla sicurezza delle scelte consolidate, e si perdono in una visione ristretta che esclude volutamente il cinema di ricerca e il rischio creativo. I veri talenti, quelli che sfidano la convenzione, quelli che hanno il potenziale di cambiare davvero il panorama cinematografico, continuano a essere marginalizzati, relegati a premi minori o del tutto ignorati.
La domanda è: quanto tempo potrà resistere un sistema che si autocelebra, che premia chi è già dentro e continua a escludere chi ha la forza di cambiare le regole del gioco? Il cinema italiano ha bisogno di un risveglio, di un ritorno alla sua radice più vera e coraggiosa. Solo così potrà recuperare la sua centralità e la sua forza, riscoprendo il ruolo che ha sempre avuto nel panorama culturale internazionale.