Frase celebre:
«La fiducia è come un vaso: una volta rotto, anche se lo ripari, non sarà mai più come prima.» – Proverbio cinese
Donald Trump è tornato a cavalcare la sua narrativa prediletta: l’America contro il mondo, i dazi come strumento di difesa e rilancio, l’economia nazionale come bastione da proteggere a colpi di tariffe e pressioni. È una strategia che affonda le radici nel suo primo mandato e che si ripresenta ora con forza in vista delle elezioni. Ma questa volta, il contesto globale è cambiato. La fiducia – la vera moneta nei rapporti internazionali – si è incrinata. E non nei confronti della Cina o dell’Europa, ma proprio verso gli Stati Uniti.
Il piano, formalmente ambizioso, si reggeva su quattro pilastri: rinegoziare gli accordi commerciali sfavorevoli, riportare la produzione industriale sul suolo americano, decarbonizzare la dipendenza da Pechino e, infine, contenere il debito pubblico attraverso la leva del riequilibrio commerciale. Ma bastano poche settimane per far emergere tutte le crepe di una strategia più ideologica che concreta. Il mercato, entità tanto invisibile quanto spietata, ha reagito subito: i rendimenti dei titoli del Tesoro americano a dieci anni sono saliti dal 3,96% a oltre il 4,5%, segnalando un’ondata di vendite e un’ondata ancora più forte di sfiducia.
Per contestualizzare: ogni aumento di 100 punti base sui titoli decennali si traduce in decine di miliardi di dollari in più di interessi da pagare ogni anno. E in un Paese come gli Stati Uniti, dove il debito ha ormai superato i 34.600 miliardi di dollari (Congressional Budget Office, Q1 2025), anche uno scarto frazionale sui rendimenti può avere effetti a valanga sul bilancio federale. Oggi, il solo pagamento degli interessi sul debito si stima in oltre 1.000 miliardi di dollari annui, rendendo questa voce la terza spesa più pesante del governo, dopo la Difesa e la Sanità.
Ma i numeri, per quanto impressionanti, non raccontano tutto. Il punto cruciale è che il mondo – inteso come comunità di investitori, fondi sovrani, banche centrali – non percepisce più gli USA come l’àncora stabile dell’economia globale. Questa è la vera svolta. E la vera sconfitta. Per anni, anche in tempi di crisi, i Treasury americani sono stati considerati l’asset più sicuro, il “bene rifugio” per eccellenza. Ora, l’improvviso disinteresse verso di essi – testimoniato da un +21% nelle vendite in due settimane – dimostra che la fiducia si è incrinata. E forse in modo irreversibile.
Il timore di un cambiamento strutturale si è diffuso tra gli hedge fund, che stanno liquidando i titoli Usa per rafforzare le proprie posizioni liquide, ma anche tra istituzioni più conservative come fondi pensione europei e asiatici. La Cina – da tempo in fase di disimpegno graduale – e il Giappone, principali creditori esteri degli Stati Uniti, osservano con attenzione. Insieme detengono ancora quasi 2.000 miliardi di dollari in Treasury, ma se anche solo una frazione venisse venduta in blocco, si aprirebbe un nuovo fronte: quello di una guerra del debito.
Una situazione simile si è vista, in forma più contenuta, durante l’ultimo downgrade del rating statunitense (Standard & Poor’s nel 2011 e Fitch nel 2023). Ma ciò che distingue oggi da ieri è la percezione di instabilità interna, acuita da un ritorno di politiche aggressive e polarizzanti. In un sistema dove il debito americano è il collaterale dell’intero impianto finanziario globale, la percezione conta più dei numeri. E la percezione attuale è quella di un Paese disposto a sacrificare l’equilibrio globale pur di inseguire un’agenda politica interna.
Le conseguenze? Diverse, e potenzialmente dirompenti. Il rialzo dei rendimenti significa tassi più alti per famiglie e imprese americane, con ricadute su mutui, prestiti e consumi. Significa meno spazio di manovra fiscale per il governo, e più difficoltà nel finanziare investimenti pubblici. Ma ha anche un effetto domino sui mercati emergenti, che spesso ancorano le loro valute e debiti al dollaro. Un’America che scricchiola fa tremare tutti.
A livello strategico, Trump ha commesso un errore fondamentale: ha dato per scontato che gli Stati Uniti potessero ancora agire da protagonisti unilaterali, forti del loro passato. Ma la globalizzazione finanziaria, per quanto contestata, ha cambiato le regole del gioco. La fiducia non è un diritto acquisito. Va guadagnata ogni giorno. E oggi, quella fiducia traballa.
In definitiva, ciò che stiamo osservando è il tramonto di un’illusione: quella dell’onnipotenza economica americana. Il vaso della fiducia, una volta incrinato, può anche essere incollato. Ma le crepe rimangono visibili. E profonde. Più delle tariffe, più dei tweet, più delle conferenze stampa.
Donald Trump voleva mostrare forza. Ha rivelato debolezza.
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