Carlo Di Stanislao
“Ogni privilegio è un’ingiustizia travestita.” – Anatole France
Viviamo in un’epoca segnata da paradossi. Da un lato, l’informazione corre più veloce che mai, rendendo quasi impossibile celare favoritismi, abusi e contraddizioni. Dall’altro, proprio questa valanga di notizie sembra anestetizzare le coscienze, rendendo l’indignazione più breve e l’ingiustizia più tollerata. In questo scenario si inserisce l’ultimo caso che ha scosso l’opinione pubblica italiana: alcuni magistrati avrebbero goduto di sconti e favori sui voli aerei, trattamenti di favore che sembrerebbero inopportuni per chi ricopre ruoli di assoluta imparzialità e dovrebbe, per primo, incarnare i valori della trasparenza e dell’equità.
L’opinione pubblica si divide. C’è chi minimizza, parlando di agevolazioni irrilevanti rispetto ai problemi reali del Paese, e chi invece grida allo scandalo, vedendo in questi «piccoli» favori il sintomo di una cultura opaca, dove il potere si autoalimenta a scapito della fiducia collettiva. In un momento in cui la giustizia dovrebbe essere un faro, ogni cedimento, ogni zona grigia, rischia di spegnere quella luce.
Ma il malessere non si ferma entro i confini nazionali. Sulla scacchiera internazionale si muovono pedine molto più pesanti. La Cina ha recentemente annunciato una drastica riduzione dell’export di terre rare, elementi chimici essenziali per la produzione di componenti elettronici, veicoli elettrici, tecnologie militari e green economy. Un colpo strategico che non è solo economico, ma fortemente politico. Con questa decisione, Pechino mette pressione a tutto l’Occidente, in particolare agli Stati Uniti e all’Europa, rendendoli consapevoli di quanto siano dipendenti da un flusso commerciale che può essere interrotto con un decreto.
La guerra commerciale, ormai cronica, tra Stati Uniti e Cina assume così toni sempre più simili a una guerra fredda tecnologica. E nel frattempo, sul versante mediorientale, l’amministrazione americana torna a puntare il dito contro l’Iran, con dichiarazioni che lasciano poco spazio alla diplomazia. Le accuse riguardano non solo il programma nucleare di Teheran, ma anche presunti attacchi a interessi americani nella regione. Il linguaggio si fa duro, i venti di guerra tornano a soffiare.
Questi scenari alimentano un senso di incertezza globale. La stabilità che ha retto – pur con tutte le sue crepe – l’ordine internazionale negli ultimi decenni sembra vacillare. Le alleanze tradizionali sono in discussione, i mercati ondeggiano, e nel frattempo milioni di persone si chiedono che futuro avranno.
In Italia, questa crisi globale si riflette in modo sempre più evidente anche nei comportamenti individuali. Sempre più cittadini si allontanano dalle città, attratti da un ritorno alla terra che è insieme economico, sociale e simbolico. Non è solo una fuga dalle metropoli, ma una protesta silenziosa contro un sistema che appare distante, iniquo, incomprensibile. Le campagne tornano a popolarsi, non per romanticismo, ma per sopravvivenza, per bisogno di senso, per ritrovare un rapporto autentico con il tempo e con il lavoro.
Questo fenomeno, che qualcuno etichetta semplicemente come “neo-ruralismo”, è in realtà il segno di una frattura sempre più profonda tra le élite urbane e una parte crescente della popolazione che si sente esclusa dalle decisioni, dagli investimenti, dall’attenzione dei media. È il riflesso di un disagio che si esprime anche nelle urne, nell’astensionismo, nelle proteste, nella rinascita di movimenti alternativi e nella richiesta di nuovi modelli di sviluppo.
Il mondo, oggi, è come una tela sfilacciata: ogni nodo che si allenta – un favore fuori luogo, un embargo silenzioso, una minaccia militare – contribuisce a renderla più fragile. E mentre i potenti giocano le loro partite nei palazzi o nelle conferenze internazionali, la gente comune cerca vie d’uscita. A volte nei campi, a volte nella rete, a volte nel silenzio.
La domanda che resta sospesa è la più semplice e la più urgente: chi ci guiderà fuori da questo intreccio di crisi? Chi saprà rinunciare ai propri privilegi per restituire credibilità alle istituzioni? Chi saprà scegliere la cooperazione invece dello scontro? Chi ascolterà davvero le voci di chi non ha voce?
Forse, come sempre, la risposta non verrà dall’alto. Ma da chi oggi, lontano dai riflettori, sta già seminando un altro modo di vivere.
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