25 Aprile: ottant’anni dopo, siamo diventati indegni della Liberazione?

Carlo Di Stanislao

“La libertà è come l’aria: ci si accorge di quanto vale quando comincia a mancare.”
— Piero Calamandrei

Ottant’anni. Tre generazioni. Eppure sembra che il tempo, invece di rafforzare la memoria, l’abbia sbiadita. Siamo un Paese che si è liberato da sé, ma che oggi sembra non sapere più nemmeno da cosa. La domanda che brucia non è tanto che cos’è il 25 Aprile, ma perché ci imbarazza ancora?

Ogni anno si ripete la stessa sceneggiatura. I cortei, i discorsi ufficiali, i post d’obbligo. Ma c’è qualcosa di stanco, di meccanico, di sordo. Un Paese che dovrebbe celebrare il proprio riscatto si divide su tutto: se i partigiani siano ancora un esempio, se “Bella Ciao” sia una canzone divisiva, se “antifascista” sia ancora una parola degna di stare nella bocca delle istituzioni.

“Il fascismo non è un’opinione: è un crimine.”
— Sandro Pertini

Eppure eccoli lì, gli imbarazzati, i silenziosi, gli assenti, quelli che “è una festa di parte”, che “c’erano crimini da entrambe le parti”, che “è ora di riconciliarsi”. Ma con chi dovremmo riconciliarci? Con chi ha abolito la libertà? Con chi ha firmato le leggi razziali? Con chi ha portato il Paese nella guerra, nella miseria, nel disonore? La Liberazione non è un’opinione. È un fatto. Ed è stato il punto zero della nostra democrazia. Negarlo o relativizzarlo non è revisionismo: è vigliaccheria storica.

“Chi non conosce la storia è condannato a ripeterla.”
— George Santayana

Ma qui non si tratta solo di non conoscere. Si tratta di non volerla più riconoscere. In un’Italia dove i libri di storia vengono compressi a poche ore di lezione, dove i test Invalsi contano più del pensiero critico, dove gli studenti sanno a malapena distinguere Mussolini da Mazzini, la memoria non è più una risorsa: è un peso. E allora si nasconde. Si evita. Si archivia. Fino a quando sarà troppo tardi.

“L’indifferenza è il peso morto della storia.”
— Antonio Gramsci

L’indifferenza è diventata il nostro stile nazionale. L’Italia del 25 Aprile 2025 è un Paese dove le persone possono tranquillamente definirsi “non antifasciste” senza che nessuno si scandalizzi. Dove si rimette in discussione ciò che dovrebbe essere ovvio: che non si può stare in una democrazia senza ripudiare il fascismo. È come voler essere sani negando la medicina.

“La Resistenza è stata una cosa sporca, difficile, faticosa. Proprio per questo è stata nobile.”
— Beppe Fenoglio

Ma oggi non vogliamo la fatica della storia. Preferiamo le scorciatoie del presente. Preferiamo pensare che il fascismo sia solo un insulto del passato, non una mentalità che torna: nei linguaggi d’odio, nei manganelli facili, nei decreti che limitano la protesta, nella nostalgia travestita da folklore. Non vediamo che il fascismo oggi non marcia più con stivali e camicie nere. Marcia con toni pacati, con i sondaggi favorevoli, con la falsa equidistanza, con il “basta con le divisioni del passato”. E in quella zona grigia, si insinua. E attecchisce.

“L’uomo libero è colui che non ha paura di andare fino in fondo alla verità.”
— Jean-Paul Sartre

E la verità è che oggi abbiamo paura. Paura di dire che siamo antifascisti, perché è diventato scomodo. Paura di spiegare cos’è stata davvero la Resistenza, perché è complessa, non sloganabile, non adatta ai tempi rapidi dei social. Paura di ricordare che la libertà non ci è stata regalata, ma conquistata. E che ogni diritto, oggi, è figlio di quella scelta.

Il 25 Aprile non è un giorno per tutti, oggi. Non perché non dovrebbe esserlo. Ma perché troppi non lo vogliono. Troppi lo ignorano. Troppi lo celebrano con l’ipocrisia di chi, il resto dell’anno, smonta pezzo per pezzo il senso stesso di quella giornata. Troppi che applaudono la democrazia mentre coltivano l’autoritarismo. Che si dicono liberali mentre attaccano chi dissente. Che parlano di patria senza sapere cos’è una coscienza civile.

Siamo diventati indigni della Liberazione? Forse sì. Perché non basta un giorno di celebrazione. Non basta cantare “Bella Ciao” se poi il 26 aprile tutto torna come prima. Se ci dimentichiamo che la libertà, ogni giorno, si difende, si coltiva, si custodisce. E se smettiamo di farlo, allora non siamo più un popolo libero. Siamo solo spettatori benestanti della nostra stessa decadenza.

E se un giorno — distratti, disillusi, stanchi — perderemo tutto ciò che il 25 Aprile rappresenta, sarà troppo tardi per accorgercene. Perché la libertà non fa rumore quando se ne va.


Eredità
di Italo Nostromo

Ci hanno lasciato pane duro e verità,
non medaglie.
Ci hanno lasciato la voce rauca
dei morti senza foto,
e la libertà —
non come premio,
ma come ordine.

I padri,
quelli veri,
avevano mani piene di terra
e occhi pieni di fuoco.
Non ci hanno chiesto di amarli,
ci hanno chiesto di ricordare.
E noi abbiamo scelto di dimenticare.

Abbiamo spento il loro fuoco
per accendere schermi.
Abbiamo seppellito i loro nomi
sotto le polveri delle polemiche.
Abbiamo preso la loro storia,
e l’abbiamo ridotta
a una festa rossa,
a una gita,
a una bestemmia.

Ora li nominiamo solo per odiare.
Solo per dire “era guerra”,
“erano tutti uguali”,
“basta col passato”.
Ma loro non erano uguali.
Erano uomini
che seppero dire no
quando era più facile inginocchiarsi.

Abbiamo perso l’eredità.
Non ci scorre più nelle vene.
Ci resta solo il sangue,
ma non il coraggio.
Solo il rancore,
ma non la scelta.
Solo la bandiera,
ma non la lotta.

E allora sì,
non siamo figli.
Siamo orfani di ideali,
profughi nella democrazia,
ospiti nella libertà
che altri hanno costruito per noi
con mani nude e schiene spezzate.

Ora stiamo qui,
a guardare il 25 Aprile
come un’eco scomoda,
un fastidio cerimoniale.
E mentre lo ricordiamo,
lo lasciamo morire. 

Tutte l’opinioni versati nel sito correspondono solo a chi la manifesta. Non e necessariamente l’opinione della Direzione

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