Carlo Di Stanislao
«Ogni film è il mondo visto da un angolo unico. Quando una donna dirige, quel mondo si apre su territori ancora inesplorati.»
— Chantal Akerman
Il cinema è nato come terreno vergine, dove lo sguardo femminile ha potuto esprimersi in modo sorprendentemente libero, prima che l’industria ne codificasse i linguaggi.
Nel periodo del muto, Alice Guy-Blaché è la prima regista a intuire il potenziale narrativo del mezzo: già nel 1896 realizza La Fée aux Choux, costruendo piccole storie attraverso una messa in scena teatrale, movimenti coreografati all’interno del quadro e montaggi interni. La macchina da presa è fissa, ma la dinamicità deriva dalla profondità scenica e dalla cura della disposizione degli attori. Guy-Blaché introduce l’idea che la macchina non sia solo un occhio neutro, ma possa costruire finzione, sogno, racconto.
Lois Weber nei suoi film usa tecniche pionieristiche come la sovrimpressione per rappresentare concetti astratti come la coscienza o il destino.
In Suspense (1913) introduce split-screen e montaggio parallelo per accrescere la tensione: un’idea che influenzerà il linguaggio hollywoodiano. Weber considera la macchina da presa come una coscienza morale capace di guidare l’identificazione emotiva.
Dorothy Arzner è la prima a usare il boom microfonico, tecnica che libera gli attori dal vincolo dei microfoni fissi e permette maggiore naturalezza. Nei suoi film, ad esempio Dance, Girl, Dance (1940), la macchina da presa costruisce spazi compressi e usa inquadrature strette e campo/controcampo per sottolineare l’alienazione delle donne nel sistema spettacolare.
Leni Riefenstahl, con Olympia (1938), reinventa il cinema sportivo usando lenti focali estreme, carrellate acrobatiche, riprese subacquee, ralenti esasperati. La sua regia fonde danza, corpo e spazio in una sinfonia visiva, ponendo la macchina da presa come parte attiva del gesto atletico.
Ida Lupino sceglie uno stile antitetico: camera fissa, luci naturali o minime, inquadrature concentrate sulle emozioni dei personaggi. In The Hitch-Hiker (1953) usa la fotografia in bianco e nero con contrasti netti per rafforzare la tensione psicologica.
Negli anni ’60 e ’70, il cinema al femminile rompe le regole formali.
Agnès Varda fa della libertà visiva il suo marchio: Cléo dalle 5 alle 7 si sviluppa in tempo reale, con piani-sequenza mobili, carrellate leggere, interruzioni documentarie e scarti diegetici.
La macchina da presa è viva, partecipe, a volte soggettiva, altre volta spettatrice discreta.
Il montaggio è fluido ma non lineare, e la fotografia sfrutta sia luce naturale sia contrasti netti per alternare momenti realistici e stati d’animo sospesi.
Lina Wertmüller usa zoom frenetici, piani inclinati, montaggi sincopati per raccontare la follia del potere e della società. In Pasqualino Settebellezze (1975), il montaggio rapidissimo e l’uso della macchina a mano creano una sensazione di instabilità continua, espressione di una realtà surreale e distorta.
Negli anni ’90, il cinema femminile diventa sempre più sofisticato.
Jane Campion costruisce i suoi film come quadri viventi. In Lezioni di piano (1993) la fotografia naturale cattura paesaggi umidi e terrosi, la camera si muove lentamente, avvicinandosi ai dettagli — mani, tessuti, superfici bagnate — che raccontano più dei dialoghi stessi.
Il montaggio ellittico dilata il tempo emotivo, spezzando la linearità narrativa per lasciare spazio all’intuizione dello spettatore.
Kathryn Bigelow in Point Break (1991) e The Hurt Locker (2008) perfeziona l’uso della steadycam, montaggi ipercinetici, camera a spalla nervosa. La tensione non deriva solo dalla storia, ma dal modo in cui l’immagine pulsa: il sonoro è ambientale, sporco, frammentato, mentre la fotografia predilige colori desaturati e luce naturale per amplificare il senso di realismo.
Chloé Zhao, in The Rider e Nomadland, abbraccia uno stile da cinéma vérité: macchina a mano, lente fissa, lunga profondità di campo, assenza di illuminazione artificiale. La regia scompare dietro i personaggi, che vengono ripresi come parte del paesaggio stesso.
Il montaggio è ritmico ma mai forzato: si lascia guidare dalle pause e dal silenzio, elementi che raccontano più delle parole.
Oggi, il panorama europeo è attraversato da registe che uniscono raffinatezza estetica e innovazione tecnica.
In Francia, Céline Sciamma adotta un linguaggio minimale ma rigoroso: inquadrature statiche, piani larghi pittorici, color grading caldo per evocare un tempo sospeso. In Portrait de la jeune fille en feu, ogni inquadratura è composta come un quadro neoclassico, e la macchina da presa si muove solo per piccoli respiri, sottolineando emozioni impercettibili.
Mia Hansen-Løve privilegia il montaggio ellittico e l’uso della luce naturale per costruire un cinema fluido, senza conflitti drammatici esasperati. La macchina da presa è discreta, i movimenti sono lenti, quasi invisibili, seguendo la logica della vita che cambia senza annunciarsi.
In Spagna, Isabel Coixet lavora sull’introspezione: usa fotografie ovattate, tempi dilatati, e un uso minimale della musica per esplorare la solitudine. La camera osserva i corpi a distanza, accentuando il senso di alienazione.
Carla Simón, con Alcarràs, adotta una regia semi-documentaria: camera a mano, luci ambientali, attori non professionisti. I movimenti sono sporadici, come incursioni nella realtà, mentre il montaggio privilegia la coralità dei gesti quotidiani.
In Italia, Alice Rohrwacher plasma un cinema artigianale e poetico: gira in pellicola 16mm, usa doppiaggi artigianali e trucchi ottici come le doppie esposizioni. Il suo montaggio predilige ellissi temporali e ricorda il ritmo fiabesco, mentre la fotografia abbraccia colori sbiaditi che raccontano un mondo antico e immaginato.
Laura Bispuri in Vergine giurata utilizza inquadrature strette, silenzio sonoro, gesti minimi per esplorare l’identità di genere. La macchina da presa aderisce ai corpi come una seconda pelle, registrandone ogni tensione e trasformazione.
In Germania, Maren Ade con Vi presento Toni Erdmann costruisce sequenze lunghe senza musica, affidandosi alla sola forza del gesto e della parola.
Nora Fingscheidt, in System Crasher, alterna montaggio frenetico a camere a mano instabili per tradurre il caos interiore della protagonista in linguaggio visivo.
In Inghilterra, Andrea Arnold perfeziona un cinema fisico e sensoriale: riprese ravvicinate, camera a mano, fotografia granulosa, luci naturali ed esposizione sovraesposta, come in Fish Tank e American Honey, raccontano l’energia bruta della giovinezza.
Emerald Fennell, con Promising Young Woman, adotta un’estetica pop volutamente artefatta: colori saturi, inquadrature simmetriche, montaggio preciso, tutto contrasta ironicamente con il tema oscuro del film, creando un cortocircuito visivo ed emotivo.
Conclusione
Dal montaggio alla fotografia, dal movimento di macchina alla gestione del suono, le donne registe hanno ridefinito i codici del cinema, reinventandone le strutture narrative, estetiche ed emotive.
Con tecniche diverse — naturalismo, lirismo pittorico, montaggi frenetici, realismo sporco, costruzione barocca — hanno trasformato il linguaggio cinematografico in un campo di libertà, creazione, resistenza.
Oggi, il cinema al femminile non è solo una variante: è un laboratorio di forme e di visioni, una continua apertura verso il futuro.